Benvenut_ a Ghinea, la newsletter che compie cinque anni! Li festeggiamo come meglio non si potrebbe, con Giorgia Maurovich e un suo scritto su scrittura femminile e genealogie. Buona lettura!
Ginealogie
di Giorgia Maurovich
[Alt Text: fotografia in bianco e nero di una giovane e sorridente Susan Sontag, seduta alla scrivania su cui non sono presenti libri, fogli o appunti bensì un paio di occhiali, una tazza di caffè, una zuccheriera e un mangiacassette. Alle sue spalle una libreria ordinata e una parete coi mattoni a vista. Fonte.]
C’è una massima di Sontag, in apertura a un suo saggio sui Taccuini di Camus, a cui da qualche mese a questa parte non riesco a smettere di pensare:
I grandi scrittori sono mariti o amanti. Alcuni dispensano le solide virtù di un marito: affidabilità, intelligibilità, generosità, rispettabilità. Di altri si apprezzano le doti tipiche di un amante, doti di temperamento più che di bontà morale. Notoriamente, in un amante le donne tollerano caratteristiche – incostanza, egoismo, inaffidabilità, brutalità – che non sopporterebbero mai in un marito […]. Allo stesso modo, i lettori accetteranno l’incomprensibilità, l’ossessività, le verità dolorose, le menzogne, le sgrammaticature – se, in compenso, uno scrittore permette loro di assaporare emozioni inusitate e sensazioni scabrose. E, come nella vita, anche nell’arte sono necessari entrambi, mariti e amanti.
Inizialmente non capivo se a ossessionarmi fosse una tassonomia umana messa in termini così semplici, mariti e amanti; o l’umorismo implicito del poter suddividere, almeno per una volta, gli scrittori in base a un loro ipotetico e innaturale ruolo domestico, di subordinazione a una o più donne della loro vita. E mentre mi divertivo a catalogare i miei autori preferiti, molti dei quali ricadono, paradossalmente, sotto la dicitura “pessimi mariti, amanti ancora peggiori”, mi sono chiesta se un corrispettivo femminile fosse possibile, fuori da cliché e rivendicazioni paternalistiche. Tuttavia, mi sono presto resa conto che le mogli e le amanti letterarie sono oggetto di un dibattito ideologico fin troppo inquinato dall’eccesso di buone intenzioni.
Il lavoro letterario delle mogli, si sa, è un lavoro di devozione testuale: richiede pazienza, inclinazione all’invisibilità e il raro talento per l’abnegazione. Le mogli correggono, trascrivono o battono a macchina, cucinano, si prendono cura dei figli e, nei rari casi in cui scrivano, lo fanno con il rammarico proprio di chi non può far altro che vivere di ipotesi e occasioni mancate. Sof’ja Tolstaja è forse il caso più eclatante, un’aderenza perfetta all’ideale di eccezione soffocata che, nella nostra epoca di neoliberismo individuale e rivendicazioni identitarie collettive, viene spesso e volentieri riconfezionata e rivenduta come cautionary tale per tutte le “ragazze” che “non hanno seguito fino in fondo i propri sogni”. Le beatificazioni postume di Sylvia Plath e Zelda Fitzgerald sono altri esempi classici di questo procedimento, che non tiene conto delle numerose criticità di un simile approccio. Ma nobilitare o criticare le scelte o le occasioni mancate dell’una o dell’altra autrice in nome di un idealismo dalle tinte paternaliste non è una prassi politica sostenibile, e le scelte di vita – o i silenzi, nei termini di Tillie Olsen – non dovrebbero essere oggetto di biasimo o consacrazione secondo i canoni etici della posterità. Le amanti, d’altro canto, a cui “nell’arte e nella vita spetta un ruolo di secondo piano”, possono essere imbevute dell’etica del femminismo dell’1%, esaltate come donne libere e lodate per l’intraprendenza, la condotta sessuale e la loro maggior aderenza ai canoni delle nostre moderne eroine con main character energy, oscurando in egual misura i loro meriti artistici o la loro mediocrità, o possono venire più semplicemente compatite e squalificate nel confronto con le mogli (in quest’ultima sottocategoria troviamo Assia Wevill, Irma Brandeis e Olga Kosakiewicz, che non ha mai fatto mistero delle conseguenze nefaste del ménage con Sartre e De Beauvoir). Trasposta al femminile, la classificazione di Sontag sembrerebbe impraticabile.
Ho capito allora che l’inventariare, il collocare e il tentare di stabilire dei legami sono sintomi di un assillo ben più complesso, specie quando si opera fuori dal canone. È un affare letterario quanto politico, ma fingiamo spesso di dimenticarcelo, finendo per misurare l’opera dell’una o dell’altra secondo la conformità alla condotta maschile – di nuovo, mariti e amanti – o a un’economia letteraria fondata sul successo e sulla notorietà. Ma nella letteratura delle donne la questione può essere posta soltanto a condizione di uscire da qualsiasi lente utilitarista e servirsi di altri due temperamenti, quello di madre e quello di figlia. Un rapporto forse più scomodo, più turbolento e conflittuale di quello che può intercorrere tra l’ideale di marito e quello di amante, o tra l’autrice celebrata e quella misconosciuta, ma che si interroga alla radice su istanze che sono da sempre al centro del dibattito. La genealogia letteraria è infatti, per le donne, una questione annosa quanto quella della legittimazione, e tali istanze sono strettamente interconnesse. È possibile parlare di scrittura in un contesto marginale, contraddistinto da mancanza di punti di riferimento, tentativi di imitazione etica ed estetica di altri autori e di continua revisione (o persino destituzione) del canone? Ovviamente lo è, ma forse varrebbe la pena di spostare lo sguardo anche solo di poco, e di considerare una modalità relazionale diversa, che permetta una lettura dell’esperienza collettiva come un continuum a partire da cui ripensare i rapporti tra scrittrici.
Il pensiero femminista italiano si interroga da tempo sulla necessità di ristabilire un legame tra madre e figlia. In L’ordine simbolico della madre, Luisa Muraro deplora l’insufficienza di rappresentazioni mitologiche, artistiche e culturali della relazione madre-figlia in una società il cui ordine simbolico si regge sulla legge del padre. Attraverso digressioni che spaziano dal mito alla psicoanalisi, la filosofa propone l’istituzione di un ordine che sia in grado di dare vita a un mondo, un linguaggio e un soggetto completamente nuovi, fuori dal “doppio dolore del lutto materno e dell’impotenza creaturale di figlie”, un ordine che dalla malinconia della perdita passa alle possibilità politiche e artistiche della creazione. Muraro non è stata l’unica a rivendicare questa necessità: la rivalutazione di questo legame ha occupato un ampio spazio nelle riflessioni di altre pensatrici della differenza come Luce Irigaray, che si è servita della mitologia greca (oltre a Elettra, il caso più emblematico è quello di Demetra e Kore) per riportare alla luce una modalità relazionale diversa, non radicata nell’immaginazione maschile. Va da sé che gli scritti di Irigaray non siano privi di criticità, come dimostrato da Amber Jacobs nella sua analisi comparata delle teorie sul materno di Irigaray e di Klein (The Potential of Theory: Melanie Klein, Luce Irigaray, and the Mother-Daughter Relationship). Ma sia che la coppia mitologica Demetra-Kore o Clitennestra-Elettra (che, vale la pena precisare, nel nostro portato culturale viene considerata come una monade) venga letta alla luce di un ottimismo idealizzante e privo di conflitti come quello di Irigaray, sia di un pessimismo virulento come quello di Klein, che vede la relazione tra madre e figlia come intrinsecamente brutale, ossessiva e segnata dall’invidia, questa reinterpretazione pedissequa del materiale originario non fa che riconfermare l’aderenza delle letture a tutta una serie di strutture simboliche che non vengono messe in discussione: questi legami madre-figlia sono dei meri sintomi proiettivi, delle modalità rappresentative, non delle prescrizioni di condotta. Un’autentica rottura col mito starebbe nella possibilità di far emergere nuove strutture della dialettica tra i due termini, strutture conformi, più che alla genealogia metodica, alle linee oblique del desiderio e della scrittura, eccentriche a ogni narrazione già tracciata.
Queste possibilità diventano chiare se ci rivolgiamo alla letteratura e alle grandi scrittrici, che sono madri o figlie. Alcune dispensano le solide virtù di una madre: affidabilità, intelligibilità, generosità, rispettabilità. E, nella scrittura come nella vita, il compito di madre è la più ingrata delle forme d’amore. Il lavoro letterario delle madri è un lavoro di memoria, la più lungimirante e accorta delle forme di cura, un lavoro di osservazione e di trasmissione, in cui la stesura del testo è, proprio come la crescita di una figlia, un difficoltoso bilanciamento di rigore e tenerezza. Delle madri fanno parte Elsa Morante, Elena Ferrante, Annie Ernaux, Alice Munro, autrici che nel dare ordine al mondo permettono la ricostruzione di un passato fino ad allora inascoltato, la lettura ordinata di un’esperienza concreta tolta all’inintelligibilità, un’anamnesi da cui emergono con lucidità l’oppressione di sesso e di classe, ma anche gli affetti, i legami familiari o amicali. Doti di bontà morale, più che di temperamento, ma che creano delle coordinate su cui orientarsi o da cui deviare, un tracciato da seguire o da abbandonare, regole a cui conformarsi o disobbedire. Quella delle madri è un’arte della misura, di chi sa che, anche nella scrittura, avere cura significa dispensare saggezza anche nella lontananza necessaria a crescere.
Di altre si apprezzano le doti tipiche di una figlia, gli eccessi di lingua e temperamento generalmente ritenuti intollerabili: l’incomprensibilità, l’ossessività, le verità dolorose, le menzogne, le sgrammaticature di chi ricerca (e ritrova) nella lettera il rifiuto di accettare la realtà così com’è. È la schiatta delle innovatrici, delle ingrate, delle intrattabili, di tutte coloro che nella ribellione all’autorità materna si aprono a forza un nuovo linguaggio armate solo di volontà e immaginazione. Le figlie sono le Kathy Acker, le Elfriede Jelinek, le Ann Quin, le Goliarda Sapienza, le grandi iconoclaste e sperimentatrici nutrite di possibilità latenti, che all’onere della trasmissione sostituiscono il compito altrettanto difficile della crudeltà creatrice, dell’ambizione al cambiamento, di una rabbia tenera e feroce. Sono scrittrici a cui si perdona la mancanza di perdono, perché è proprio con quell’ostilità senza compromessi che riescono a ritagliarsi, nelle “emozioni inusitate e sensazioni scabrose”, nuovi modi di essere, di vivere e di raccontare. E, come nella vita, anche nell’arte sono necessarie entrambe.
Questo abbozzo di ripartizione che ho cercato di tratteggiare ricalca però, volente o nolente, i due poli di lettura del rapporto madre-figlia presi in esame da Jacobs. Le scrittrici madri sembrano aderire alla lettura idealizzante e benevola di Irigaray, che vede le madri come individui desideranti in un legame a due, mentre nella furia delle figlie riecheggia l’avversione denigratoria della bambina kleiniana. Nelle parole di Jacobs, la preoccupazione centrale dovrebbe essere, più che perpetuare ingenuamente una fantasia utopica, “lavorare all’interno del mito per disfare le proiezioni dell’immaginario maschile e riorganizzarne le strutture dalle fondamenta”. È grazie all’impiego che il femminismo fa della psicoanalisi che una considerazione più attenta del proprio inconscio, delle proprie fantasie e proiezioni diventa possibile, ma la relazione madre-figlia (o Irigaray-Klein) in termini binari non fa che rientrare nel paradigma che permette la formazione di simili false dicotomie, e che impedisce al tempo stesso una trasformazione sociale e un’analisi estranea a queste trappole. Nella rilettura del mito di Elettra, Jacobs vede il compromesso necessario che permette di non scadere nella politica senza polemica o nella polemica senza politica. I temi della follia e del matricidio presenti nell’Orestea vengono letti alla luce dell’assenza di una mediazione simbolica situata al di là della narrazione dell’immaginario maschile: la pazzia di Elettra poggerebbe, per Jacobs, su una legge materna assente o non ancora elaborata. L’obiettivo è allora quello di operare in assenza di questa legge, soffermandosi non più sugli effetti che una categoria ha sull’altra, bensì su una teoria in grado di unificarle secondo coordinate simboliche nuove.
Un’autentica ginealogia letteraria, allora, parla di scrittrici non come possibilità implicite o potenzialità sprecate, ma come istanze concrete in dialogo costante tra loro. È un lavoro di ricostruzione che, come le madri, non dimentica il proprio posizionamento all’interno di una lunga linea di discendenza, e che, come le figlie, lo mette al servizio di chi ha bisogno di esistere qui e ora. È la creazione di una nuova mitologia iniziata da Virginia Woolf nella tanto auspicata stanza tutta per sé, è il processo di scrittura come re-visione di Adrienne Rich, che esortava alla generazione della propria soggettività, è la mitopoiesi di Audre Lorde che inventa un nuovo linguaggio per nuove storie e di Gloria Anzaldúa che le ricama sulla frontiera, è l’unione di affetto, resistenza e relazione che per bell hooks è possibile solo al margine.
Una compilazione ragionata di una ginealogia letteraria è a tutti gli effetti un compito gravoso. È un lavoro di riconciliazione, gratitudine e memoria che obbliga a fare i conti con i limiti in cui si incagliano le rappresentazioni esistite ed esistenti, ma che permette al tempo stesso di incanalare e integrare questa pluralità di esperienze in un immaginario completamente diverso, di creare con la letteratura nuovi miti, nuove identificazioni, nuovi modi di stringere legami. Richiede un tipo di attenzione particolare, una conciliazione di confronto e conforto che in letteratura si manifesta con la massima urgenza, ma che ci accorda la facoltà, nelle parole di Carla Lonzi, di far esistere, e non più di cercare, ciò di cui abbiamo bisogno. “È un vero peccato essere costrette a scegliere”, scriveva Sontag in chiusura al paragrafo su mariti e amanti. Questa volta, però, è possibile non doverlo fare.
Giorgia Maurovich studia Letterature Comparate. Slavista e germanista di formazione, ha fondato il progetto Estranei. Collabora con Limina, Il Tascabile e altre realtà online.
Perché le donne sono in prima linea nelle proteste contro la riforma delle pensioni da poco approvata in Francia.
Louise Toupin, autrice di Il salario al lavoro domestico. Storia di un movimento femminista internazionale (1972-1977), è stata da poco in Italia. Qui il testo del suo intervento alla libreria Input di Bologna.
Viaggio preoccupante nella manosfera.
Mujeres de Frente è un collettivo femminista anticarcerario di Quito: Revista Periferias ha rivolto loro qualche domanda (in inglese qui). Sullo stesso argomento, anche questo dialogo.
Romina Braggion legge Silvia Federici.
CALENDARIO
Giovedì 4 maggio, al Centro della Pace di Bologna, Gloria e Antonia Caruso dialogano con Giusi Palomba a proposito de La trama alternativa, di cui puoi leggere un estratto nel numero di febbraio. Appuntamento alle 18.30!
FATTO DA NOI
Marzia ha partecipato al IV Premio Nazionale Gianmario Lucini ed è statə menzionata in entrambe le sezioni con degli inediti che si leggono qui.
FATTO DA VOI
Le bravissime Mis(s)conosciute hanno pubblicato un libro su Fabrizia Ramondino: eccolo qui.
[Alt Text: ritratto fotografico in bianco e nero di Fabrizia Ramondino, vestita di nero con un cappello dello stesso colore. Ramondino fuma una sigaretta e la sua figura è parzialmente coperta dalle foglie strette e lunghe di una grossa pianta. Fonte.]
“Psicoterapia trans* affermativa: una proposta a partire da un posizionamento incarnato”: un intervento di Fau Rosati.
Astri Amari ha scritto un libro che rivoluziona l’astrologia, si può pre-ordinare qui.
Martina Neglia scrive di Rossana Rossanda qui.
Grazie a Giorgia per aver contribuito a questo numero. Ci rileggiamo a fine maggio. Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia