La ghinea di aprile
Benvenut_ a Ghinea, la newsletter che compie quattro anni! Dal 30 aprile 2018 a oggi abbiamo pubblicato quarantotto numeri ordinari e otto numeri speciali; siamo diventate un progetto indipendente (grazie di tutto, inutile!); abbiamo conosciuto tantissime persone che ci hanno aiutato a rendere ogni numero un (bel) po’ più ricco e interessante di come sarebbe stato se ce ne fossimo occupate da sole; abbiamo raccontato Ghinea dal vivo in qualche occasione (ma non molte, perché siamo timide); abbiamo presentato alcuni libri (pochi, per lo stesso motivo), ne abbiamo letti, discussi e consigliati assai di più quasi ogni mese; abbiamo raccolto una selezione di articoli dei nostri primi due anni in un libretto scaricabile qui; siamo state molto felici per ogni messaggio, ogni suggerimento e ogni critica. Grazie a tuttə!
Quello che faremo nei prossimi mesi e anni non lo possiamo prevedere, ma sappiamo già ciò che non faremo: non renderemo Ghinea una newsletter a pagamento, non creeremo contenuti esclusivi, non limiteremo in nessun modo l’accesso e la possibilità di riprodurre quanto pubblichiamo.
Per questo mese, tornano Giorgia Maurovich e Ludovica C.: Giorgia ci parla del pensiero di Julia Kristeva, e Ludovica legge A ghost in the throat di Doireann Ní Ghríofa.
Se anche tu, come loro, vuoi contribuire a uno dei prossimi numeri di Ghinea e ritieni che la tua proposta sia in linea con quello che pubblichiamo, perché non ci scrivi per raccontarcela?
Buona lettura!
Julia Kristeva, il pensiero tra lingua e desiderio
di Giorgia Maurovich
Se pensiamo all’écriture feminine o al pensiero della differenza, a farsi strada nella nostra mente sono innanzitutto i nomi di Cixous o Irigaray, le immagini di Medusa e dello speculum, la spinta all’autodeterminazione per mezzo del corpo e della scrittura. Più delle loro ricerche, tuttavia, sono stati gli studi di Julia Kristeva, psicanalista e semiologa francese, a spianare la strada a tutta una branca teorica che si occupa per l’appunto dell’intersezione tra testo e desiderio, tra abiezione e sublimazione.
[Alt Text: fotografia scattata a Julia Kristeva nel 2016. Kristeva porta i capelli corti e indossa una giacca nera sopra una maglietta viola. Di fronte a lei c’è un microfono. Fonte.]
Nata in Bulgaria nel 1941 ed emigrata in Francia nella seconda metà degli anni Sessanta, Kristeva si fa notare subito per la sua formazione peculiare, che unisce il bagaglio di conoscenze del blocco sovietico, come gli studi dei formalisti russi e l’analisi letteraria di Bachtin, alle teorie strutturaliste che andavano formandosi negli ambienti intellettuali di Parigi. Ma è nel 1974 che il suo nome sale alla ribalta della scena letteraria internazionale con l’uscita di La rivoluzione del linguaggio poetico, che getta le basi per la teoria sul linguaggio che verrà approfondita nei testi successivi.
A rendere peculiare la metodologia messa a punto da Kristeva è infatti non solo il sistema di segni utilizzato dai soggetti (che Kristeva definirà per la prima volta “soggettività” sottolineandone la natura performativa e dinamica), ma il processo attraverso cui i “soggetti parlanti” si costituiscono nei regimi discorsivi, perché è impossibile disgiungere gli esseri dal linguaggio di cui si servono: un linguaggio che diventa pulsione, una significazione che trasfonde il corpo vivo nel linguaggio.
Per la teoria di Kristeva, questa significazione ha due modalità: il simbolico e il semiotico, che corrispondono a due poli opposti ma complementari dell’utilizzo del linguaggio. Il primo è descrittivo, ordinato e connotato da una precisione che mira a fugare l’ambiguità, mentre il secondo esprime desideri, sentimenti e pulsioni inconsce del soggetto parlante in un flusso di parole e jouissance più emotive che razionali (ne è un esempio il monologo di Molly Bloom che conclude l’Ulisse). Pur esprimendosi a livello verbale, il semiotico non è soggetto direttamente alle leggi della grammatica e alle regole della sintassi, e può essere assimilato, insieme al simbolico, alla distinzione tra natura e cultura. Lungi dal porre false dicotomie, l’obiettivo di Kristeva è quello di sottolineare l’interdipendenza dei due poli, che in un infinito combinarsi permettono una comunicazione energica e significativa.
È qui che si fa avanti la nozione di chora, presa in prestito dal Timeo platonico. Se per il filosofo greco la chora è lo spazio preesistente alla creazione del mondo, un ricettacolo innominabile e ibrido che contiene le potenzialità dell’universo, per Kristeva diviene lo spazio psichico primordiale di ogni individuo, una chora semiotica effimera e prelinguistica come spazio che produce la comunicazione semiotica. In Kristeva, la chora è uno spazio ritmico e volatile, generatore di energia significante, ecolalie e intonazioni infantili. Punto di rottura è, per il bambino, “la frattura tetica”, istante in cui avviene la consapevolezza, attraverso la differenza tra il sé e l’alterità, che il linguaggio è uno strumento il cui scopo è indicare oggetti esterni.
In questa fase, muovendo dalla fenomenologia di Husserl, Kristeva si riaggancia alla psicanalisi prima freudiana e poi lacaniana: attraverso la lacerazione operata dalla completezza fittizia dell’immagine del soggetto nello specchio, la chora semiotica degenera nel simbolico, nel linguaggio come unica modalità di relazionarsi all’altro da sé. Questa scissione è la stessa scissione su cui poggia la ricerca linguistica di Saussure, che vede ogni relazione tra significante e significato come arbitraria, ma che proprio in virtù di quest’arbitrarietà pone il concetto di simbolo come un’unione tra i due poli, proprio come il soggetto nel pensiero di Kristeva.
La fase successiva della ricerca di Kristeva si rifà direttamente alla teoria dei registri di Lacan, muovendosi però ai suoi margini. L’interconnessione tra il registro dell’Immaginario, del Simbolico e del Reale è al centro del pensiero lacaniano, ma la critica di Kristeva si staglia su un’interpretazione differente delle modalità con cui i tre concetti costituiscono il soggetto. Per riassumere brevemente la teoria lacaniana, l’Immaginario corrisponde all’identificazione narcisistica del sé nella fase dello specchio, il Simbolico alla dimensione extraindividuale in cui il soggetto partecipa alla società per mezzo dello scambio simbolico del linguaggio, mentre il Reale a ciò che sfugge a ogni simbolizzazione o idealizzazione.
A differenza di Lacan, tuttavia, Kristeva identifica il simbolico non con il padre ma con la madre, e attraverso le prime interazioni con la madre e con il seno materno lə bambinə può incorporare il discorso dell’altro. Anche una volta completato il processo di significazione del soggetto, l’Immaginario e il Reale lasciano tracce nel linguaggio semiotico, e la Legge del Padre, identificata da Lacan con il Simbolico, non riesce ad avere il completo controllo del linguaggio. La chora è quindi sia processo di costituzione del soggetto sia la sua dissoluzione tramite il linguaggio poetico, perché un essere parlante non è stabile ma un sujet en procès, un soggetto in continuo divenire.
Per Kristeva, questo processo di soggettivazione non è strettamente individuale, ma avviene in un sistema aperto dove gli affetti, i desideri e le energie in gioco nell’interazione con lə altrə concorrono alla formazione di tutte le parti. Pur rimanendo all’interno del pensiero della differenza, la filosofa rompe con l’essenzialismo determinista e sceglie di porre l’accento sulla fluidità, sulla chora semiotica che sfugge alla catalogazione simbolica. A identificarsi con la chora non è il femminile in sé, bensì la possibilità trasformativa dei soggetti tramite il linguaggio. È così che il pensiero di Kristeva supera il manicheismo e il determinismo biologico, e giunge all’intersezione con la pratica femminista cercando di opporsi sia alle strategie di assimilazione e infiltrazione all’interno del sistema sia all’esilio al margine. Contro queste due modalità opposte, la prima focalizzata sul raggiungimento degli stessi traguardi e diritti consentiti agli uomini, la seconda su un femminile divinizzato dalla differenza, Kristeva riprende la famigerata massima lacaniana secondo cui “la Donna non esiste” (ossia non esiste un’idea universale e monolitica di donna e di femminile ma solo le sue singole manifestazioni) e auspica la nascita di un terzo tipo di pratica, che possa conciliare desiderio e sovversione non attraverso l’evitamento del contratto sociosimbolico, bensì attraverso un’assunzione della responsabilità individuale all’interno di un sistema che si può cambiare con la pratica – invece di una riproduzione di gerarchie e rivalità, le possibilità di una nuova etica che superi dialetticamente queste costrizioni.
È così che si giunge alla necessità della rivoluzione, teorizzata ne Il senso e il non-senso della rivolta. Nella società odierna, quella società dello spettacolo osservata e criticata da Debord, il senso del semiotico si va costantemente perdendo di fronte a una realtà sociale sempre più simbolica e anestetizzante. Nella sovraesposizione alle immagini a cui siamo soggetti, la realtà viene invertita nel flusso del capitale, le immagini diventano reali e la realtà diventa un simulacro anche e soprattutto nello spazio soggettivo, privato delle proprie potenzialità espressive. La rivolta resta pertanto cura e necessità, e dal programma rivoluzionario delle avanguardie letterarie Kristeva giunge, con l’aiuto della psicanalisi e di tre figure centrali del dibattito intellettuale francese (Sartre, Aragon e Barthes), a teorizzare una nuova cultura della rivolta. Riagganciandosi alle intuizioni iniziali sulla dimensione significante del linguaggio, Kristeva auspica una società in cui “la rivolta possa tener viva la capacità di entusiasmarsi, di dubitare, e il piacere della ricerca” (cit. da Il senso e il non senso della rivolta).
Se tuttavia il pensiero di Kristeva, concentrata sulla psicanalisi e sull’individuo, non raggiunge mai una portata realmente pratica sul collettivo, è bene chiudere il cerchio tornando alle origini della filosofa. La specificità e l’etica individuale sono necessarie a ogni rivoluzione per non soccombere all’ideologia e alla burocratizzazione spersonalizzata, come avvenne nel caso del blocco Est. Se il personale è politico, quindi, l’attenzione al personale – e in particolare al suo semiotico, alle potenzialità espressive e pulsionali intrinseche e indomabili – e alla sua autenticità è, a tutti gli effetti, la base di ogni pratica politica efficace.
Giorgia Maurovich studia Lingue e letterature straniere e cura il progetto Est/ranei. Puoi seguirla su Instagram.
In poche parole, perché Louis C.K. ha vinto un Grammy nonostante tutto.
Parliamo di male glance.
Un ricordo di Letizia Battaglia.
E uno di Chiara Frugoni.
[Alt Text: fotografia recente di Letizia Battaglia. Battaglia, che indossa occhiali da sole e una blusa nera a pois bianchi, è seduta all’aperto e poggia i gomiti sul tavolo. Con la mano destra regge una macchina fotografica, con la sinistra una sigaretta accesa. I capelli sono tinti di rosa e portati corti, con la frangia. Fonte.]
Una breve intervista di Global Project a Deborah Ardilli, autrice di Manifesti femministi. Il femminismo radicale attraverso i suoi scritti programmatici (1964 - 1977), e traduttrice, fra le altre, di Valerie Solanas e Christine Delphy.
Sarah Lazare svela i rapporti di Amazon con Human Rights Campaign, che si definisce la maggior organizzazione per i diritti civili delle persone LGBTQ+ negli Stati Uniti. In un recente rapporto, Human Rights Campaign ha descritto Amazon come una delle aziende più virtuose in fatto di lotta alla discriminazione e benessere del personale LGBTQ+ sul luogo di lavoro. Le condizioni lavorative negli stabili e soprattutto nei magazzini di Amazon sono, tuttavia, note da anni, e ben altro che idilliache. Solo poche settimane fa, per esempio, è potuto nascere il primo sindacato statunitense formato da dipendenti Amazon, dopo anni di intimidazioni sotterranee e tentativi (anche grotteschi) da parte dell’azienda di scoraggiare la sindacalizzazione.
In verità, racconta Lazare, Amazon ha già collezionato diverse denunce per discriminazione, molestie mirate, insulti e minacce da parte di dipendenti o ex dipendenti LGBTQ+. Il motivo per cui, a dispetto di ciò, riceve scintillanti recensioni da Human Rights Campaign è assai banale: Amazon è in grado di elargire ampie donazioni, e spicca sul sito dell’organizzazione come “platinum partner”.
Ci sono moltissime ottime ragioni per affermare che zoo, zoo safari e bioparchi non sono luoghi educativi per bambinə.
Effimera pubblica un contributo scritto per La Stampa da Lea Melandri, che offre il suo sguardo femminista e antipatriarcale sulla guerra, fra i molti possibili:
Dire “No alla guerra” oggi, in qualsiasi forma si manifesti, significa per me essenzialmente due cose: non ignorare che le guerre sono state fino ad ora strumento di dominio e, contraddittoriamente, via obbligata di molte lotte di liberazione; riconoscere al medesimo tempo, alla luce di nuove consapevolezze, che le guerre hanno anche impedito di affrontare a fondo i conflitti, di risalire alle cause dell’odio che le muove, di prevenirle, di creare le condizioni per una migliore convivenza umana. Ci sono stati tanti e straordinari cambiamenti nella storia dell’umanità, perché non dovrebbe cambiare anche l’idea di ciò che è “reale” e “possibile”?
Dalla stagione 2022/202, il calcio femminile italiano non sarà più dilettantistico ma a tutti gli effetti professionistico.
Appunti su Angela Davis, scritti da Toni Morrison.
Nell’agosto del 2021, le forze talebane hanno riconquistato il potere in Afghanistan. Da quel momento, come previsto, la condizione femminile nel paese è peggiorata drasticamente. Su Pagine Esteri, Valeria Cagnazzo parla della chiusura dei centri antiviolenza, degli arretramenti normativi che isolano le donne in cerca di supporto, e della distruzione delle già fragili reti di solidarietà femminili.
Intervista a Ilaria Leccardi, fondatrice della casa editrice femminista indipendente Capovolte.
FATTO DA NOI
Marzia ha tradotto Il racconto dell’elicottero di Isabell Fall, sul sito della casa editrice Zona42 tutte le informazioni e un estratto.
[Alt Text: Copertina nera del libro “Il racconto dell’elicottero”. Al centro, il simbolo transgender con all’interno la stella e le strisce dell’esercito americano in colore azzurro. Fonte.]
Gloria è stata ospite del podcast di cinema Ricciotto per ripercorrere, insieme a Federica Bordin e Aldo Fresia, la filmografia della cineasta inglese Andrea Arnold.
Attiva da poco più di vent’anni (il suo primo cortometraggio, Milk, risale al 1998), Arnold si inserisce nella corrente del realismo sociale britannico. Le sue storie, spesso d’impronta autobiografica, riguardano la vita nella provincia inglese povera e depressa, dove il lavoro manca, le famiglie hanno pochi soldi e lo stato è assente, e in particolare si concentrano sulle donne e sulla loro scarsità di prospettive. Evitando inutili pietismi, Arnold racconta le giovani madri single e le loro difficoltà nel formare relazioni romantiche, le adolescenti rese vulnerabili dall’impellenza di scappare, le donne devastate dal lutto.
[Alt Text: primissimo piano di Luma, mucca pezzata bianca e nera protagonista del documentario Cow. Entrambe le sue orecchie sono state forate per la marchiatura. Sullo sfondo, fuori fuoco, è possibile scorgere le sagome di altre mucche dal manto simile al suo. La mandria si trova all’aperto e sta pascolando in un prato verde. Fonte.]
Il suo ultimo lungometraggio Cow (2021) è un documentario e rappresenta una novità nel suo percorso artistico, la seconda dopo l’adattamento del romanzo Wuthering Heights realizzato nel 2011. Girato nel corso di quattro anni all’interno di un allevamento, Cow segue da vicino la vita della mucca da latte Luma, nel tentativo dichiarato di catturare la sua coscienza, e affrancarla così dallo sguardo specista che sa vedere in lei soltanto cibo o materiale per capi di abbigliamento. In effetti, nel corso del film quello sguardo è sempre all’opera: non nelle riprese di Arnold, bensì nella stessa esistenza di Luma, che non possiede neanche un istante di libertà. Ogni passo di Luma è guidato dall’uomo: i pasti, le monte, i numerosi parti seguiti dall’immediato e straziante allontanamento del vitellino, il prelievo del latte dalle mammelle gonfie, i vari spostamenti da una piccola stalla all’altra. Anche i momenti in cui Luma e le altre mucche vengono liberate per qualche ora, e lasciate a scorrazzare fra l’erba rigogliosa, sono piccole parentesi destinate a concludersi con il rientro degli animali nei loro piccoli rettangoli di metallo. Tutto ciò di cui Luma fa esperienza non proviene da lei, da un suo istinto o (perché no?) desiderio, ma al contrario le viene fatto, senza che lei possa scegliere di sottrarsi.
Pur osservando la riduzione reiterata degli animali a oggetti, Arnold rifiuta cocciutamente di pensare alle mucche come somme di cosce, petti, lombate – rifiuta cioè di pensarle tutte uguali e intercambiabili, e insegue l’individualità di Luma standole il più vicina possibile e usando soprattutto la camera a mano. Gli sguardi di Luma vengono indagati a lungo, i suoi muggiti sono tutto ciò che valga la pena ascoltare nell’assenza quasi totale di voci umane e colonna sonora. Al contrario del cavallo in Fish Tank e del cane in Dog, questa mucca non compare come allegoria di niente, né della condizione umana ma neanche di quella animale, e di animale in allevamento nello specifico. Arnold, senza negare ma nemmeno esplicitare la propria condanna rispetto a ciò che ha filmato, invita a riconoscere il valore e la dignità della vita di Luma oltre il suo innegabile status di vittima. Come diverse delle personagge di Arnold, del resto, Luma è madre, è resa impotente dalle circostanze, e cerca di sopravvivere nonostante tutto. Riuscire a presentarla non soltanto come facile oggetto di compassione, ma come protagonista di una storia con cui sia possibile, nonostante la differenza di specie, entrare in relazione, è l’ambizione di Cow.
FATTO DA VOI
Antonia Caruso è stata intervistata da Gay.it. E anche da The Submarine. Puoi leggere un suo contributo nello scorso numero di Ghinea.
Cospirazione animale, l’ultimo saggio di Marco Reggio, è da poco uscito per Meltemi Editore. Puoi recuperare uno scritto di Marco nel numero di giugno 2020, in cui ha introdotto e commentato per noi Afro-ismo e il lavoro di Aph e Syl Ko.
Il 25 aprile è uscita la staffetta partigiana di Mis(S)conosciute, che hanno deciso di dedicare due puntate del loro podcast alle donne che hanno fatto, e poi scritto, la Resistenza.
UN LIBRO
A Ghost in the Throat di Doireann Ní Ghríofa (2020)
di Ludovica C.
A ghost in the throat è un libro straordinario. Inizia così:
This is a female text, composed while folding someone else’s clothes. My mind holds it close, and it grows, tender and slow, while my hands perform innumerable chores
Questo testo è femmina, composto piegando i vestiti di qualcun'altro. La mia mente lo tiene stretto, e cresce, sensibile e lento, mentre le mie mani compiono innumerevoli faccende.
L'autrice è Doireann Ní Ghríofa, poetessa irlandese, e il libro intero sarà una lunga e complessa spiegazione di questo incipit.
A ghost in the throat è, a prima vista, la biografia della nobildonna, Eibhlín Dubh Ní Chonaill (Eileen O'Connell, nella versione inglese del nome gaelico), il cui marito, Art Ó Laoghaire (cattolico) fu assassinato nel 1773 da un notabile locale (protestante): quest'ultimo si era offerto di comprare il suo cavallo per cinque sterline, dato che una legge vietava ai cattolici di possedere cavalli di valore superiore a questa cifra, e quando Art aveva rifiutato era stato dichiarato fuorilegge, e poi, appunto, ucciso. La vedova, distrutta, scrisse una lamentazione dal titolo Caoineadh Airt Uí Laoghaire, dove Caoineadh è appunto la parola gaelica per indicare una particolare forma poetica usata per i testi funebri: le lamentazioni erano prerogativa di donne, spesso anziane, che accompagnavano con il loro canto le cerimonie funebri.
[Alt Text: veduta area di Derrynane, in cui Eibhlín Dubh Ní Chonaill è cresciuta. L’immagine raffigura alcuni ruderi e tombe che si affacciano su una bassa scogliera Fonte.]
Questa forma poetica è prettamente orale, si basa su un metro chiamato rosc e contiene alcuni temi ricorrenti (il dolore, la vendetta, il ricordo delle gesta del defunto): è a voce che Eibhlín la compone, ed è così che viene tramandata prima di essere messa per iscritto da un'altra poetessa quasi un secolo dopo. Il testo viene considerato il componimento poetico più importante della lettura irlandese e inglese del VIII secolo, ed è così che arriva a Ní Ghríofa, sui banchi di scuola:
La prima volta che ci siamo incontrate, io ero una bambina, e lei era morta da secoli.
Ci vorranno diversi anni prima che, in un successivo incontro, Ní Ghríofa senta qualcosa di speciale per questa poesia. Passando per caso davanti a un cartello stradale che indica "Kilcrea", si ricorda dove ha già sentito questo nome: è la località di cui la poetessa ha seppellito il marito. Riprende il testo, lo rilegge e “mi sentii viva in esso”. Inizia a questo punto il racconto del lavoro di ricerca che Ní Ghríofa compie intorno al poema. Inizialmente, il suo desiderio è quello di scrivere una nuova traduzione in inglese del testo gaelico, perché insoddisfatta delle versioni esistenti, ma il desiderio di rendere per iscritto quello che il testo fa vibrare in lei si accompagna fin da subito a un desiderio di conoscere questa donna, la sua arte poetica, e i suoi desideri: “Pochi si avvicinavano abbastanza alla sua voce da saziarmi, e le pagine di accompagnamento sulle sue vicende erano spesso così rade da lasciarmi affamata”.
Ní Ghríofa però non è una traduttrice, né un'accademica, e anzi, il poema la trova con tre figli piccoli, in preda ad una routine di cure domestiche e materne che ci vengono descritte come totalizzanti, ma non opprimenti, anzi parte integrante della sua identità. E qui sta, a mio avviso, il nodo più meraviglioso di questo testo, il suo essere "femmina": il lavoro di ricerca sulla vita di Eibhlín Dubh Ní Chonaill, l'opera di traduzione, il lavoro archivistico, i viaggi nei luoghi dove ha vissuto, sono intrecciati dal racconto della maternità e della identità di Ní Ghríofa, e mentre vediamo la biografia della poetessa dipanarsi, è la storia della nostra autrice a dipanarsi. Nel cercare una poetessa morta da due secoli, trova molte versioni di sé stessa.
Questo processo ci viene anticipato fin dalle prime righe del testo, e viene continuamente ribadito. Per esempio:
Le mie settimane erano interamente travasate fra le due forze gemelle del latte e del testo, settimane che presto si riversarono in mesi e poi in anni. Mi faccio una vita in cui non appena mi lascio sedere, è per emettere pallide sillabe di latte, mentre sorseggio il mio scuro sostentamento dall’inchiostro.
Quando la quarta bambina nasce prematura, e passa diverse settimane in terapia intensiva neonatale, Ní Ghríofa porta con sé in ospedale il testo a cui sta lavorando. Non può allattare, e non scrive nemmeno, ma tiene accanto a sé sia il libro che la bambina: né latte né inchiostro in quei giorni in cui tutto il resto si attenua.
Ma ad eccezione di questo momento, in cui la maternità (in pericolo) offusca ogni altra cosa, per tutto il resto del romanzo l'autrice è inequivocabilmente madre: legge mentre è attaccata al tiralatte, va in biblioteca mentre i figli sono a scuola, studia a notte fonda e scrive in macchina in un parcheggio vicino alla scuola. Quelli che sembrano dei "salti mortali" – per far coincidere la sua vita familiare con quella che è velocemente passata da passione letteraria, a interesse professionale, a ossessione – non sono però rappresentati davvero come tali: è come se Ní Ghríofa fluisse da un ruolo all'altro senza soffrire la discontinuità, senza sentirsi costretta in nessuno dei due ruoli. Barcamenarsi nelle due attività la stanca, certo, e le pagine trasudano sforzo e fatica, ma è uno sfinimento attivo, un lavoro a cui l'autrice si dedica in modo talmente viscerale, talmente poco dosato, in maniera quasi ferina, da far sembrare tutto puro istinto.
[Alt Text: ritratto fotografico di Doireann Ní Ghríofa, che indossa una camicetta giallo acceso e porta i capelli neri tagliati in un caschetto corto. Fonte.]
C'è una consapevolezza del fatto che quello che sta compiendo è lavoro (riproduttivo, intellettuale), per esempio quando scrive “A volte un corpo femmina ne serve un altro effettuando un furto a se stesso, ma c'è anche un fervore quasi religioso nel modo in cui si getta in macchina alla volta del luogo dove Eibhlín Dubh Ní Chonaill è cresciuta, o sul letto ad allattare sua figlia. Ní Ghríofa ha scelto queste due forme di lavoro, e più la stancano più si sente, forse, definita dalla sue fatiche.
In un certo senso, è come se i due lavori siano la stessa cosa, richiedano lo stesso tipo di abilità, di cura, di devozione, lo stesso modo di strappare il tempo al Tempo per riuscire a fare tutto, la stessa tecnica di stilare liste e farsi strada attraverso i vari compiti:
Non ho nessun dottorato, nessuna cattedra, nessuna autorizzazione dei genitori – sono solo una donna che ama questa poesia. Il compito della traduzione, tuttavia, non mi sembra poco familiare, non solo perché ho tradotto le mie stesse poesie, ma perché il processo mi pare così simile alle faccende domestiche. In italiano la parola stanza significa camera. Se ci sono dei momenti in cui mi sento male equipaggiata e intimorita dalla esperienza di chi ha percorso queste camere prima di me, mi rassicuro: sto semplicemente facendo le faccende, e questo pensiero mi rinsalda, perché prendersi cura di una camera è una forma di lavoro che so di poter svolgere bene come chiunque altro.
In questa recensione Parhul Seghal descrive il libro di Ní Ghríofa come un lavoro domestico, in cui "mette insieme la vita di Ni Chonaill come se stesse facendo un orlo, impedendo alla storia di sciogliersi ulteriormente". La potenza di questo libro, mi pare, sta nel modo in cui questa armonia emerge da una frenesia di impegni stancante eppure, apparentemente, sempre sotto controllo. L’essere madre, il tenere in piedi una casa, insomma, non solo non si frappone fra lei e il suo lavoro intellettuale, ma anzi la prepara a svolgerlo, la rende adatta, la rassicura sulle sue capacità. Cosa sarebbe lei se non fosse madre? E se non lavorasse al testo di Ní Chonaill?
Su questa domanda il libro raggiungere una certa tensione: da una parte la sua indagine letteraria giunge a un epilogo quando Ní Ghríofa non riesce a rispondere a tutte le sue domande sulla vita della poetessa, e dall’altra anche la sua esperienza di maternità si conclude. Dopo la nascita della figlia (ultima di quattro) il marito le dirà chiaramente di non essere intenzionato ad averne altr*. Lei si sente persa, quasi depredata, e proprio quando la figlia cresce ed è pronta ad essere svezzata si rende conto che non ritornerà mai più ad allattare.
Insomma, gli oggetti di entrambe le sue dedizioni si esauriscono:
Attirare mia figlia lontana dal mio corpo e addestrare i suoi appetiti a dirigersi altrove sarebbe stato tirare me stessa via dalla mia comoda tana di servizio. Non lo posso fare, il rituale di dare me stessa a un* altr* è così squisito. Ho fatto di me stessa una invisibilità, nascosta accuratamente in stanze fatte dal lavoro femminile di ripetizioni e latte.
I suoi tre figli e sua figlia crescono e si allontanano dal suo corpo, così come il suo lavoro biografico e di traduzione finisce ed "esce da lei" per assumere la forma di un libro. Le due esperienze non sono diverse, ancora una volta la maternità non è un ostacolo sulla sua strada di accademica, di poetessa o di traduttrice, né tantomeno i suoi interessi letterari e professionali la allontanano dalla sua vita familiare. Le due parti di sé sono in una simbiosi profonda, estenuante, e che dovrà per forza giungere ad una conclusione, inevitabile per quanto malinconica. I figli e le figlie, come i testi (femmina) che scriviamo, devono separarsi da noi.
Il libro si chiude con le stesse parole con cui si è aperto: “This is a female text”, ma l'espressione ”female text” compare in totale sedici volte (la mia preferita: “Mia figlia sorride. Indossa un cardigan rosa acceso che ha fatto a maglia sua nonna, un testo femmina in cui ogni punto è una sillaba”). Altre parole che tornano spesso sono “desire” (trentaquattro) e “milk” (novantatre). Il testo femmina allatta, e desidera.
Come spiega l'autrice stessa in questo breve video, uno dei fili conduttori del libro è proprio il desiderio, quasi la pretesa, di rendere giustizia alla vita di questa donna dimenticata dalla storia, e simbolicamente riflettere su quanti "testi femmina" si sono perduti (“Studiare una vita femminile segnata dal silenzio è tentare di mappare la nebbia”). Ma questo libro, come sottolinea anche Seghal nella sua recensione, è molto di più che la biografia di una donna dimenticata dalla storia: è nel ripercorrere questa vita che l'autrice ci racconta la propria, e l'intreccio stesso, il fatto che questi fili siano tenuti insieme, è più importante delle parti che lo compongono.
[Alt Text: Kilcrea, il luogo di sepoltura di Art Ó Laoghaire. L’immagine raffigura i resti di una abbazia che sorge in un paesaggio pianeggiante.]
Alla fine del volume c'è il testo del poema, sia in gaelico che nella traduzione di Ní Ghríofa. "Guardare" il testo nelle due lingue è stata una esperienza di esplorazione affascinante come cercare su internet le foto dei luoghi che menziona: andare un po’ più vicina alla materia di questo libro, in modo molto concreto. In questo video, un'attrice declama il testo in gaelico del poema. La totale impenetrabilità della lingua (alle mie orecchie) non toglie una briciola alla potenza espressiva di questa lettura.
Non solo non conosco il gaelico, ma non so nemmeno (quasi) niente della lunga e complicata storia fra cattolici e protestanti in Irlanda, che ha tanto segnato la vita di Eibhlín Dubh Ní Chonaill e di suo marito. Il testo di Ní Ghríofa non si preoccupa di ricostruire questo contesto con esattezza, ma trasuda amore per la propria terra, partecipazione alla propria storia, in modo, anche qui, viscerale prima ancora che intellettuale. In questa intervista che l'autrice ha concesso a The Paris Review, descrive il suo amore per la storia come “infantile”, e si descrive come perennemente affascinata dall’idea che altre vite abbiano percorso i suoi stessi luoghi. Dall’intervista sembra emergere una volontà quasi politica di integrare la storia d’Irlanda nella propria pratica letteraria, senza che questo renda mai il testo didascalico.
Non ho mai letto un libro come questo, che sfidasse i generi in maniera così sfacciata mischiando memoir, poesia, e biografia: se “il mezzo è il messaggio” direi che è come se questo libro mi avesse dato il permesso di essere più cose insieme, come si mi avesse rammentato che vale sempre la pena di fare luce sulle contraddizioni di quello che si desidera, e che lo scopo non è risolverle, ma scoprirsi tramite esse. Per me è un libro straordinario, sull'ossessione, sul darsi, sull'ossessione di darsi, sulle corrispondenze, la ricerca accademica, l'amore per un testo, la maternità, il desiderio, e infine la pena (e la libertà insieme) di liberarsi di ciò a cui si è dato.
Tutte le traduzioni sono a cura di Ludovica.
Ludovica C. ha 26 anni e fa il dottorato in Economia a New York ma in realtà vorrebbe solo leggere tutto il giorno. Puoi seguirla su Twitter.
Grazie a Giorgia e Ludovica per i loro contributi! Ci leggiamo fra un mese.
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia
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