La ghinea di agosto
Benvenut* al quinto numero di Ghinea, la piadineria furgonata del femminismo, sempre aperta fino a tarda notte. Questo mese sperimentiamo con la forma della newsletter, abbiamo scritto riflessioni più lunghe e chiesto ad amiche ospiti di fare lo stesso. Parliamo soprattutto di musica: ricordiamo Aretha Franklin, cerchiamo di problematizzare la nostra ammirazione/ossessione per Beyoncé, tessiamo le lodi di Mitski e sosteniamo CRLN. Inoltre, seguiamo gli sviluppi del caso spagnolo della Manada, la proposta di legge argentina sull'aborto e il fenomeno degli Incel. E alla fine, un invito per te. Buona lettura!
Già da un paio di mesi in Arabia Saudita le donne possono prendere la patente e guidare: il traguardo è storico perché con la caduta del divieto non esistono più paesi in cui non sia loro concesso farlo, e coincide con un'apparente apertura del principe Mohammed bin Salman ai diritti civili, tuttavia è guastato dall'arresto delle voci prominenti del femminismo saudita, le attiviste che per anni si sono battute per poter guidare e per poter abbattere l'oppressione femminile nel paese che secondo il World Economic Forum si piazza alla posizione 138 su 144 per la parità di genere (puoi consultare l'intero report qui). Questa contraddizione ha portato alcuni osservatori occidentali a domandarsi se il giovane principe non sia piuttosto impegnato in un'elaborata operazione di propaganda che lo presenti come un riformista lontano dall'oscurantismo che nel nostro immaginario è legato a doppio filo ai paesi del Medio Oriente. Il suo recente tour negli Stati Uniti e nel Regno Unito è stato anticipato da un controverso profilo firmato dall'editorialista Thomas Friedman, ospitato dalla famiglia reale a Riad. L'articolo celebra le riforme economiche e sociali di Mohammad bin Salman accennando soltanto di sfuggita alla catastrofica guerra che l'Arabia Saudita ha scatenato contro lo Yemen (con armi occidentali), dando spazio a un virgolettato secondo cui l'Iran sarebbe guidato da un nuovo Hitler e glissando del tutto sulla dura repressione degli attivisti e delle attiviste che non accenna a fermarsi (per cinque sciiti, tra cui Israa al-Ghomgham, è appena stata chiesta la pena di morte. Se dovesse essere giustiziata Israa sarebbe la prima donna saudita a morire per mano dello stato a causa del suo attivismo).
Come mai stiamo parlando così a lungo di un uomo? Perché è un buon esempio di come talvolta il sostegno a cause civili o ambientali sia una faccenda di cosmesi e di calcolo politico più che di etica personale: è certamente una gioia che le donne saudite possano guidare e speriamo che sia un passo decisivo verso un'emancipazione soddisfacente, ma non porteremo in trionfo un ricco principe guerrafondaio per aver elargito alle donne un diritto basilare, peraltro con notevole ritardo rispetto al resto del mondo e lasciandone indietro parecchi altri. Preferiamo attribuire i meriti di questa conquista alle attiviste che per anni hanno messo a rischio la propria incolumità personale e la propria libertà a vantaggio di tutte. E celebriamo il loro coraggio.
Nella Ghinea di giugno ti abbiamo raccontato dello stupro di gruppo che ha scatenato numerose proteste di piazza in Spagna, il caso Manada. I colpevoli sono tutti in libertà, ma da Siviglia arriva una notizia che ci fa sperare che la violenza sessuale possa sempre più spesso incontrare la sanzione sociale che merita. Mentre si trovavano in piscina per festeggiare un compleanno, due di loro sono stati riconosciuti dagli altri frequentatori dello spazio e dopo qualche momento di tensione si sono dovuti allontanare tra le urla e lo scherno.
Aretha Franklin all'Apollo Theatre, 1971
Il 16 agosto è morta Aretha Franklin, regina indiscussa del soul. Dei tanti ricordi che stanno piovendo e che gettano su di lei una luce di positività che per una volta sembra proprio meritata, a noi piace soprattutto quello che riguarda Angela Davis. Nel 1970 Davis, filosofa e comunista militante, venne braccata e arrestata dall'FBI con l'accusa di aver fornito armi alle Pantere Nere. Aretha Franklin si offrì immediatamente di pagare la cauzione per il suo rilascio, qualunque fosse la cifra stabilita, con queste parole: "Angela Davis must go free. Black people will be free. [...] I have the money. I got it from Black people - they've made me financially able to have it - and I want to use it in ways that will help our people". Angela Davis fu poi scagionata con formula piena e tornò in libertà. Qui ricorda l'episodio in collegamento con Democracy Now!, e questa è la storia di una delle hit più celebri di Aretha Franklin, Respect: una cover di Otis Redding da lei trasformata in un inno alla parità nelle relazioni amorose e più avanti presa in prestito dai movimenti per i diritti civili (da lei finanziati con frequenza e senza clamore). A proposito di diritti civili: la famiglia Franklin era molto vicina a Marthin Luther King e Aretha cantò al suo funerale.
L’8 agosto il Senato argentino ha votato contro il progetto di legge sull’interruzione volontaria di gravidanza (IVE), già promosso alla Camera a giugno (ne abbiamo parlato nella Ghinea di giugno). In questa intervista (in spagnolo), due studentesse discutono le loro posizioni, favorevoli e contrarie, relative al progetto di legge, oltre che raccontare le storie personali che le hanno portate a identificarsi con i due movimenti in lotta. La Campaña Nacional por el Derecho al Aborto Legal Seguro y Gratuito continua il suo impegno per garantire “educazione sessuale per decidere, contraccezione per non abortire, aborto legale per non morire”, sostenuta dal Pañuelazo Internacional, la rete di manifestazioni tenutasi l’8 agosto davanti alle ambasciate argentine in tutto il mondo (anche in Italia). La revolución de las pibas prosegue anche in altri modi, soprattutto cercando di tamponare le situazioni d’emergenza che inevitabilmente tornano a ripetersi: Socorristas en red è un sistema di collettivi presenti su tutto il territorio argentino, composto da professionisti sanitari e attivisti. Le socorristas forniscono informazioni e assistenza a chi sceglie di autoprocurarsi un aborto mediante l’assunzione del farmaco Misoprostol. Quiun’intervista in inglese al collettivo. Le socorristas dichiarano di aver tratto grande ispirazione dai "collettivi italiani degli anni '60 e '70": le nostre ricerche su questi gruppi di sostegno per donne che vogliono abortire purtroppo non si sono rivelate particolarmente fruttuose, perciò ti invitiamo a segnalarci letture e materiale sull'argomento qualora fossi più ferrata di noi sull'argomento!
Fan art per Flannery O'Connor (tra i fan, anche Tullio Pericoli). Ritratti di carcerate siriane, disegnati dalla compagna di cella Azza Abo Rebie.
Perché non ci sono più spazi urbani progettati pensando alle ragazzine?
In Corea del Sud proseguono le manifestazioni di protesta con il fenomeno delle molka, i video ottenuti senza consenso e distribuiti come materiale pornografico realizzati con le cosiddette “spycam”, telecamere installate illegalmente in ascensori e bagni pubblici, spesso così piccole da poter essere contenute dentro chiavi e accendini (per poter filmare sotto le gonne nei mezzi pubblici). Il 4 agosto si è tenuta la quarta “marcia per la giustizia”, a Gwanghwamoon, Seoul, dopo le precedenti proteste (19 maggio, 9 giugno e 7 luglio) che hanno visto il numero di partecipanti salire da 15.000 a 60.000. La protesta riguarda anche l’atteggiamento, interpretato come connivenza, inerzia e faziosità di genere, dimostrato dalla polizia nei confronti delle donne che intendono sporgere denuncia, di conseguenza garantendo una sorta di impunità, nonostante lo spycam porn sia spesso utilizzato come vendetta o come ricatto, fino ad essere la causa del suicidio della vittima. Qui, un’intervista con le organizzatrici (anonime) a capo di 불편한 용기 (bulpyeonhan yong-gi, “coraggio scomodo”), il comitato organizzatore delle proteste. La protezione della propria identità è cruciale anche per le partecipanti alle manifestazioni, le quali si coprono testa e viso per evitare di essere riconosciute (e di conseguenza molestate, sia online che nella vita quotidiana), i cui volti sono sempre oscurati nel materiale mediatico. Inoltre, l’impegno delle organizzatrici per garantire la sicurezza delle partecipanti si è espresso nella richiesta che solo giornaliste e operatrici di ripresa donne, insieme ad agenti di polizia donne, fossero ammesse entro gli spazi delle manifestazioni. Un’esigenza che ha peraltro sottolineato il profondo disequilibrio tra la presenza femminile e maschile in entrambi gli ambiti professionali: alcune reti hanno ammesso di non contare camerawomen tra i propri dipendenti, e la polizia di Seoul ha dovuto impiegare agenti donne della vicina provincia di Gyeonggi per garantire il servizio di sicurezza. Purtroppo, il dettame “solo donne” è diventato presto “solo femmine biologiche”, di fatto escludendo la rappresentanza transessuale e non-binaria che potrebbe portare sostegno alle manifestazioni. “Una regola che dimostra quanto sia altresì difficile per le donne prendere la parola, quanto spesso siano rifiutate, e la loro sicurezza raramente assicurata”, è la giustificazione delle organizzatrici.
Adesso che la polvere si è posata sul fenomeno degli incel, la meravigliosa Contrapoints lo analizza dal punto di vista di una donna trans.
La poesia più famosa di Stevie Smith si intitola Not Waving but Drowning: un nodo di angolazioni permette il replay dell’ultimo gemito dell’uomo affogato, “non stavo salutando, stavo annegando”. Nell'illustrazione che accompagna la poesia, Smith ritrae una figurina accecata da righe nere di capelli, ondine d’acqua che non superano l’ombelico, mentre il “pover’uomo” del testo muore "troppo al largo" perché il freddo che ha sempre sofferto è stato scambiato, da riva, per una delle sue solite burle. Nel video di Geyser, primo singolo e proemio del suo quinto album Be the Cowboy, Mitski, figurina in abito nero e galosce, scava a mani nude nella sabbia bagnata di una spiaggia deserta, dentro un paesaggio in scala di grigi. Geyser è un crescendo tripartito, si finge una canzone di dedizione romantica, ma in realtà è un’invocazione alla musa, un’affermazione di eterna lealtà professionale da parte di Mitski alla sua carriera di performer e musicista. In Be the Cowboy Mitski si disfa in fretta dell’introspezione, e presta lo spazio delle sue brevissime canzoni alle microstorie di personaggi senza nome. “Siamo quasi affogati / per una tale sciocchezza”: gli ex amanti di Old Friend hanno custodito un unico segreto, il baretto defilato dove incontrarsi la domenica per chiacchierare. Lonesome Loveè una ballata country sui disequilibri di potere che nemmeno i tacchi alti possono correggere, una walk of shame racchiusa nello spazio letterale della canzone, che finisce quando Mitski stacca il cavo dall'amplificatore ed esce dalla stanza sbattendo la porta. Il sospiro all’inizio di Me and My Husband presta un po’ d’aria alla casalinga suburbana per lasciarla annunciare che “scommette tutto quello che ha” su suo marito, “un paio di respiri rubati al mondo per un minuto” prima di svanire, insieme a tutte le cose che ha visto. In questa intervista Mitski descrive Be the Cowboy come un album “molto femminile”: “c’è qualcosa di incredibilmente violento nell’essere una donna e provare desiderio in quanto donna - non così carino, non proprio delicato”. E in effetti le scarpe sporche che sbattono nel cestello del “cuore lavatrice” (Washing Machine Heart) a ritmo del battimano, e la pungente meet cute al contrario di Why Didn’t You Stop Me sfiorano la mortificazione propria all’idea di una donna che desidera. Ma la disforia di A Pearl, la frustrazione di Blue Light, la smania di Pink in the Night indicano onde private troppo alte e scure per non incutere timore (non a caso La pianista di Haneke è tra le fonti d’ispirazione dell’album). Un ritornello composto solo da nove allarmanti I love you, in Pink in the Night, copre il “bagliore rosa”, l’involucro di carineria di chi “la notte fiorisce da sola”. Nel tormentone perfetto per ballare e singhiozzare all’unisono, Nobody, Mitski invoca il pianeta Venere solo per raccontarci del riscaldamento globale che l’ha distrutto, infilando un nobody dopo l’altro fino all’ultimo no. Stevie Smith racconterebbe questa rincorsa e fuga dalle cose carine - say nothing at all, only cry pretty / cry pretty, pretty, pretty - come una liberazione, “la cosa più carina di tutte”: ripetere i love you i love you i love you, nobody nobody nobody fino a eludere la mitezza, e diventare il cowboy.
“Quando vincono loro è meritocrazia, quando vinciamo noi è identity politics”: il discorso di N.K. Jemisin, che ha vinto gli Hugo Awards 2018 con il romanzo The Stone Sky. N.K. Jemisin è stata la prima donna nera a vincere il prestigioso premio letterario dedicato alla fantascienza nonché l'unica persona nella storia a riuscirci per tre volte di seguito.
Beyoncé è sulla copertina del numero di settembre del Vogue americano, ritratta, per la prima volta nella storia della rivista, da un fotografo afroamericano, Tyler Mitchell. Ieratica davanti a panni stesi al sole, algida nella posa statica contro fondali posticci, quando altrove ha rivaleggiato con marmi bianchi alati e incoronazioni di imperatrici: Mitchell sceglie di farla appollaiare sopra uno sgabello dalle gambe sottili quanto i tacchi, la costringe in una rigida esse di fianco ad una colonnina di gesso troppo piccola per farle da piedistallo. Il 6 agosto è stato pubblicata la cover story: Beyoncé in Her Own Words: Her Life, Her Body, Her Heritage, una lista per punti che, senza alcun preambolo, si apre con il parto cesareo d’urgenza, e prosegue per brevi pensierini, come un tema libero, fino al bilancio finale: “mi trovo in uno stato di gratitudine al momento. Accetto quella che sono. Continuerò a esplorare ogni angolo della mia anima e della mia arte.” Beyoncé parla mediante i realia degli hashtag e motti motivazionali: “durante la mia convalescenza, mi sono concessa self-love e self-care, e ho accettato l’essere più formosa” e “non sono felice se non mi sto migliorando, evolvendo, facendo progressi, se non sono fonte di ispirazione, se non sto insegnando e imparando”. Recita la lezione che ha studiato a memoria: “in quanto madre di due bambine, è importante per me […] che si immaginino come CEO, come capi, che sappiano che possono scrivere la trama della loro vita. […] Voglio che mio figlio abbia un alto IQ emotivo per cui sia libero di essere premuroso, leale e onesto. È tutto quello che una donna cerca in un uomo, eppure non lo insegniamo ai nostri bambini”. Beyoncé si distrae e si lascia andare ad un paio di meta-commenti sul servizio fotografico, per cui ha rinunciato a extensions e trucco, autocongratulandosi per la scelta, “storica, ma non iconica”, del fotografo. Placida e meccanica, rimbalza da un argomento all’altro: “[le persone di potere] continueranno a ingaggiare le stesse modelle, curare la stessa arte, scritturare sempre gli stessi attori, e sarà una sconfitta per tutti noi. La bellezza dei social media è che sono del tutto democratici. Ognuno può dire la sua”.
Non ci illudiamo che l’intervista, o il profilo, siano metodi effettivi per ricercare la storia e capire la donna dietro Queen Bey, e dubitiamo sia opportuno farlo. Ma le parole di Beyoncé - “her own words” - didascaliche, aforistiche, sterilizzate e apparentemente slegate da qualunque domanda, filtrate - “as told to” - dall’editing minimale di Clover Hope, suonano come un responso sconnesso. Queen Bey è diventata la pizia del femminismo mondiale, e sono rare le occasioni in cui si presti a conversazioni guidate e pubbliche, sempre restia ad avvalorare l’idea che l’intervista funzioni come glossa al lavoro autoriale. Quello che è più stimolante, in Beyoncé, è il fatto che non sia un’oratrice: la sua morale e il suo retaggio sono visuali, e da sempre preferisce affidarsi alle parole altrui, prendendole in prestito, rendendo la citazione evidente e cifra della sua musica.
Non stiamo parlando dei campioni musicali che spuntano un po’ dappertutto nella sua discografia, ma delle pause che Beyoncé forza all’interno delle sue canzoni per inserire voci che non sono la sua. È una prassi che Beyoncé ha rafforzato negli anni, una sorta di ventriloquio, un prestito della sua tribuna privilegiata a (selezionati) pensieri altrui. Ci sono già elementi di ventriloquia nel primo visual album del 2013, Beyoncé: l’estratto dalla TED Talk di Chimamanda Negozi Adichie campionato in ***Flawless, l'omaggio al monologo di Maude, da The Big Lebowski, sulle femministe e il sesso, camuffato in francese in Partition. In Lemonade (2016), Beyoncé affina le sue pratiche di engastrimita adottando i versi di Warsan Shire, ritagliandoli per armonizzare i passaggi tra le tracce, ripulendoli dagli accenni musulmani, e soprattutto alienando la voce collettiva che Shire costruisce, per esempio in Home, a favore di un’astratta lamentela domestica, rimpicciolendo il raggio di The House. Don’t Hurt Yourself è tagliata in due dall’estratto “On Protecting Black Women” tratto dal discorso tenuto da Malcolm X il 5 maggio 1962, in cui peraltro incita gli astanti a chiedersi “chi vi ha insegnato a odiare la consistenza dei vostri capelli? […] Chi vi ha insegnato a odiare la forma del vostro naso e delle vostre labbra?”. I sample non sono usati solo in isolamento, Beyoncé stratifica parole altrui anche dentro la trama musicale, caricando politicamente l’invettiva del rapper Messy Mya campionata in Formation e nascondendo in Freedom le registrazioni dell’etnomusicologo Alan Lomax: il sermone del reverendo R.C. Crenshaw alla chiesa battista di Memphis, con l’inno cantato in risposta dalla congregazione (registrato nel 1959), e la work song “Stewball” cantata dal “carcerato numero 22” presso il Mississippi State Penitentiary (registrata nel 1947). Il rapporto di Beyoncé con le parole è ambiguo ed erratico, reso ancora più complicato da tracciare dalla sua eccezionale capacità di scoprire opportunità di business retroattivo dentro i suoi stessi testi. È il caso dei versi di Drunk in Love in cui descrive la fellatio come “drinking watermelon”, rivendicando allo stesso tempo il tropo razzista del “watermelon stereotype” e che diventarono l’occasione, ad album già uscito, per investire in una startup di bevande all’anguria. Presumere che Beyoncé si esprima con “le sue parole” non è solo sensazionalismo, quanto una forma di pigrizia che trascura le concessioni di intimità già rese pubbliche dalla sua opera. Tra tutte, l’evocazione della nonna creola Agnez Deréon, “l’alchimista che ha filato l’oro da questa dura vita”, la cui autentica ricetta per limonata è inserita in coda a Lemonade. Il testamento per le figlie, e “le figlie delle figlie”, è già stato scritto, limpido, nella musica di Beyoncé: una cassa di risonanza che, lasciando spazio alle idee espresse da altre voci, risponde ad un presente retrogrado, spesso portando alla luce passati sepolti senza, però, mai arrischiarsi a indicare alcuna profezia.
Due attiviste per i diritti dei migranti sono state denunciate e rischiano una pena dagli otto giorni a un anno di carcere per aver protestato, nude in pieno centro a Bruxelles, contro la detenzione di minori nel centro di Steenokkerzeel. La struttura in questione, attiva dal 1994 e circondata da tre giri di filo spinato, è destinata a richiedenti asilo e migranti a cui le autorità belghe non hanno concesso il visto. Trovandosi accanto all'aeroporto, è spesso usata come stallo per le persone il cui rimpatrio è già stato programmato. A loro sono riservate le celle di isolamento. Se leggi il francese, il sito Getting the voice out viene spesso aggiornato sulle condizioni dei prigionieri e delle prigioniere. Nel corso della loro azione, le due ragazze hanno esposto un manifesto con scritto “Ceci n’est pas un scandale, enfermer les enfants ça l’est”.
FATTO DA VOI
Il mondo del rap, sia italiano che straniero, è sempre stato un men, men’s world. E nonostante la popolarità del genere in italia negli ultimi anni, c’è costante opposizione a farlo diventare un genere più inclusivo. Fanno molto male gli insulti sessisti subiti dalla rapper marchigiana CRLN mentre apriva un concerto del ben più famoso Gemitaiz all’Indiegeno Fest in Sicilia. Rolling Stone spiega bene cosa è successo qui.
Mentre in Italia una conversazione sull’ hip hop e il femminismo deve ancora iniziare, e rapper validissime come McGill fanno veramente fatica ad affermarsi e vengono costantemente insultate su YouTube e fuori, quando non sono ignorate del tutto, questo discorso negli USA è cominciato molti anni fa. Più precisamente ad a fine anni ‘70, con la nascita stessa del genere, nel South Bronx. Questo articolo molto bello di Vice ripercorre il contributo prezioso che hanno dato le prime donne MC afroamericane alla diffusione del femminismo. Dalle Salt’n Pepa, a Erykah Badu, a Queen Latifah: tutte rapper che hanno messo al centro dei loro messaggi il femminismo e l’antirazzismo.
E non solo negli USA. Anche In Vietnam l’hip hop femminista sta avendo un grande successo negli ultimi anni, con molte artiste seguitissime che si ribellano contro una cultura tradizionale e oppressiva. Ma quanto spacca Suboi, considerata la regina del genere? Ce la possiamo fare anche in Italia.
Grazie di cuore a Chiara (che puoi seguire su Twitter) per questo prezioso contributo su rap e femminismo. Per quanto riguarda CRLN, la nostra amica Florencia l'ha intervistata per Radio Popolare e puoi ascoltarle discutere gli eventi qui.
UNA POESIA
Safiya Sinclair è una poetessa giamaicana, Cannibal (2016) è la sua prima raccolta.
Only God, my dear,
Could love you for yourself alone
And not your yellow hair.
—W. B. Yeats, “For Anne Gregory”
Sister, there was nothing left for us.
Down here, this cast-off hour, we listened
but heard no voices in the shells. No beauty.
Our lives already tangled in the violence of our hair,
we learned to feel unwanted in the sea’s blue gaze,
knowing even the blond lichen was considered lovely.
Not us, who combed and tamed ourselves at dawn,
cursing every brute animal in its windy mane—
God forbid all that good hair being grown to waste.
Barber, I can say a true thing or I can say nothing;
meet you in the canerows with my crooked English,
coins with strange faces stamped deep inside my palm,
ask to be remodeled with castaway hair, or dragged
by my scalp through your hot comb. The mirror takes
and the mirror takes. I’ve waded there and waited in vanity;
paid the toll to watch my wayward roots foam white,
drugstore formaldehyde burning through my skin.
For good hair I’d do anything. Pay the price of dignity,
send virgins in India to daily harvest; their miles
of glittering hair sold for thousands in the street.
Still we come to them yearly with our copper coins,
whole nights spent on our knees, our prayers whispered
ear to ear, hoping to wake with soft unfurling curls,
black waves parting strands of honey.
But how were we to know our poverty?
That our mother’s good genes would only come to weeds,
that I would squander all her mulatta luck.
This nigger-hair my biggest malady.
So thick it holds a pencil up.
UNA CANZONE
Mona Haydar è una rapper, poetessa, studiosa delle religioni e attivista siriano-americana. In Hijabi (Wrap my Hijab) canta della sua scelta di indossare il velo islamico come affermazione di libertà, il hijab e le sue declinazioni come simbolo di sorellanza per il "feminist planet" che immagina.
UN FILM
It Felt Like Love di Eliza Hittman (2013)
L'esordio su grande schermo di Eliza Hittman è la delicata storia di un'adolescente alla prese con la prime esperienze sessuali, o per meglio dire con la mancanza di tali esperienze. Lila osserva le storie della sua migliore amica e vorrebbe penetrare quel mondo di carezze e intimità fisica che finora ha solo guardato da lontano per potersi finalmente sentire alla pari, ma insicurezza e inesperienza si aggiungono al suo senso di inadeguatezza e rendono ogni suo tentativo vano e anche un po' patetico. Lila è un precipitato dei quindici anni come ce li ricordiamo tutti: c'è la timidezza subito compensata con improbabili smargiassate, ci sono le bugie a cui non si sa come rimediare e c'è soprattutto quel continuo avvicinarsi e poi ritrarsi dal sesso, in un'indefinita confusione che rende difficile capire se sia maggiore il desiderio o la paura. Hittman lavora con close-up e con frequente isolamento dei dettagli per immergerci nel mondo del tutto autoriferito di Lila e nell'ossessività della sua quest, ed esclude ciò che non la interessa e resta per lei rumore di fondo esagerando forse con la profondità di campo. Il film è morbido e pacato nel ritmo ma pian piano aumenta i giri fino a condurci con estrema naturalezza al momento cruciale della tentata iniziazione di Lila, che invece è ruvido e perturbante. A far da contrappunto a questa avventura c'è il racconto della preparazione al saggio di danza, in cui parimenti vediamo Lila arrancare e necessitare dell'aiuto delle sue compagne più spigliate e dalle movenze più sensuali.
UN LIBRO
Dopo Sottomissione volontaria, la svedese Lena Andersson ci regala un'altra disastrosa avventura amorosa. Protagonista di Senza responsabilità personale è ancora una volta Ester Nilsson, che avevamo lasciato fortunosamente scampata da una relazione abusiva e ritroviamo alle prese con un diverso tipo di asimmetria sentimentale. Ester perde infatti la testa per Olof Sten, attore di teatro, sposato senza farne mistero, e più si invischia nella relazione più si convince che ben presto lui lascerà la moglie e renderà aperto e legittimo il loro rapporto. Buona parte di questa certezza è radicata nei desideri di Ester, ma qualcosa nasce anche dall'atteggiamento solo in apparenza trasparente di Olof, che da buon attore sa destreggiarsi nelle ambiguità del non detto ed essere tenero e subito dopo algido o viceversa. Ester comprende, anche se fa finta di no, il calcolo dietro ogni mossa di Olof e impara quasi d'istinto a regolarsi di conseguenza, spesso trattenendo i propri slanci per evitare che lui si barrichi nel timore di aver forse concesso troppo a quella che in fondo è solo un'amante. Tra Ester e il narciso Olof si sviluppa un amore che somiglia a una desolante transazione di capitale emotivo da un metaforico conto personale all'altro: a ogni "prelievo" corrisponde un trasferimento di potere al partner, che lo esercita finché non si ritrova in rosso. A quel punto i ruoli sono rovesciati, un nuovo gioco comincia e in questo disequilibrio risiedono tanto l'infelicità di Ester quanto la sua impossibilità di staccarsi da Olof. Andersson non scrive questa storia per farci sperare che finisca bene, ed elimina ogni dubbio e ogni suspense con frequenti commenti della voce narrante, insinuandola in un dialogo o una scena fra Ester e Olof per spiegare al lettore cosa sta succedendo davvero oltre, e nonostante, ciò che viene raccontato. Sin dall'inizio sappiamo che non c'è lieto fine e che questo amore, se così si può chiamare, è destinato a morire: Andersson è il medico legale che svolge l'autopsia sotto i nostri occhi, eviscerando pazientemente il cadavere per trovare il morbo fatale.
UNA DONNA
Ahed Tamimi ha da poco compiuto diciassette anni e cinque mesi li ha già passati in carcere. Ahed vive a Gaza con la sua famiglia e lo scorso dicembre è stata arrestata e portata a processo dalle autorità israeliane per aver insultato, preso a calci e schiaffeggiato un soldato dell'IDF subito dopo aver saputo che suo cugino era stato ferito con un proiettile alla testa proprio dalle truppe israeliane. La famiglia Tamimi si distingue da anni per la sua resistenza contro l'occupazione, e la stessa Ahed era già diventata un volto noto nel 2015 quando cercò di impedire l'arresto del fratello dodicenne. In quel caso non ci furono conseguenze per lei, ma questa volta è stata interrogata e poi detenuta mentre l'Occidente si scandalizzava per la sua storia e ammirava il suo coraggio. Nel corso di questi pochi mesi, Ahed è diventata un'icona della resistenza palestinese oltre che la testimonianza vivente di ciò che bambini e giovanissimi rischiano sotto l'occupazione (le ultime statistiche parlano di quasi trecentominori detenuti e di multe salate comminate alle loro famiglie. Sappiamo inoltre che non vengono risparmiati né lunghi interrogatori, né l'isolamento, né torture. Questo è possibile perché nel 2015 l'età per l'imputabilità penale è stata abbassata a dodici anni). Come mai proprio Ahed? Sua madre, che ha trascorso un periodo in carcere con lei, sostiene che dietro la mobilitazione occidentale in favore di questa specifica ragazzina ci sia un fondo di razzismo. Ahed infatti non sembra araba, ma ha gli occhi e la pelle chiari e una voluminosa chioma biondastra: potremmo trovarla in una delle nostre scuole superiori. Basta questo per affermare che il suo caso ci susciti empatia per prossimità percepita? Difficile stabilirlo, ma abbiamo la possibilità di dimostrare il contrario ora che ha scontato la pena ed è uscita di prigione, mentre tanti suoi coetanei e coetanee rimangono dietro le sbarre. Ecco Ahed finalmente libera e per nulla piegata dai mesi di prigionia in dialogo con Abby Martin (dell'ottimo sito di informazione Empire files).
Ahed Tamimi a Betlemme, di fronte al murale realizzato per lei dall'artista italiano Jorit
FATTO DA NOI
Marzia ha scritto una poesia in inglese senza autotradursi dall’italiano, ma ripensando il concetto di amore (e tutti i costrutti sociali, sessuali e religiosi che gli sono stati costruiti sopra) attraverso la sua seconda lingua, imparandolo una seconda volta. A love a love a-love si può leggere qui.
E infine, noi tre ghinee siamo finalmente riuscite a incontrarci di persona! Abbiamo fatto il punto della situazione, raccolto nuove idee e pianificato i prossimi mesi di Ghinea. Ci incontreremo ancora mercoledì 31 ottobre a Bologna, questa volta per un Halloween femminista aperto a tutte le lettrici e lettori che abbiano voglia e tempo di aggiungersi. Per permetterci di capire se il luogo che abbiamo in mente possa funzionare, ti chiediamo di contattarci nel caso volessi essere delle nostre!
A prestissimo, e continua a sostenere la tua paninoteca di quartiere.
Francesca, Gloria e Marzia