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Nel numero di questo mese Vera Sibilio ci parla dell’esperienza del femminismo nemesiaco, mentre Diletta Crudeli racconta le “zone intermedie” nella letteratura giapponese femminile. Buona lettura!
Tutti i fiumi arrivano al mare della ribellione: per un femminismo nemesiaco
di Vera Sibilio
Il mio primo incontro con le Nemesiache è avvenuto un giorno estivo imprecisato quando ho posato lo sguardo su una targa che leggeva: «Belvedere Lina Mangiacapre, artista femminista, 1946-2002. Quartiere Posillipo». Sapendo quello che so oggi sul femminismo nemesiaco, penso che non ci sarebbe stato modo migliore di imbattermi in questo gruppo, che ha fatto della dimensione corporea e materiale il perno del suo lavoro e della sua filosofia, se non quello di attraversare uno spazio che è prova del suo segno tangibile su Napoli e nel femminismo.
Il gruppo delle Nemesiache nasce nel 1969 su iniziativa di Lina Mangiacapre. Napoletana di origine e trasferitasi a Roma per studiare filosofia, ritorna nella città partenopea per “fuggire dall’università e fare filosofia coi pescatori e i camerieri di Mergellina”. Il primo passo compiuto da Mangiacapre nel dare vita alle Nemesiache è stato l’avvio di un’approfondita ricerca mitologica, uno “scavare in se stessi e nelle pietre”. Questo processo aveva una duplice valenza. Da un lato, serviva a radicare la pratica femminista delle Nemesiache nel territorio del napoletano, ad ancorarla ai suoi riferimenti storici e geografici che gli avrebbero conferito linfa vitale. Dall’altro, abbracciare il mito significava abbandonare il pensiero logico su cui si era costituita la civiltà patriarcale. Il pensiero logico infatti, secondo Mangiacapre, è un pensiero parziale, incompleto, colpevole di aver “generato una filosofia alienata”, carente della parte più creativa e sregolata dell’agire umano.
La sensibilità per l’atto creativo si definisce sin dal primo momento come punto di snodo del femminismo nemesiaco. È nel primo Manifesto delle Nemesiache, datato al 1970, che il gruppo napoletano, composto inizialmente da Lina Mangiacapre, la sorella Teresa Mangiacapra e Silvana Campese, asserisce “la nostra creatività è il nostro mondo che emerge e esplode capovolgendo e scoprendo infinite fantastiche imprevedibili dimensioni”. Ne consegue che le Nemesiache fanno del mezzo artistico il principale veicolo di espressione della propria attività politica, diventando pioniere dell’arte femminista e inserendosi nel più ampio dibattito femminista sull’arte che vede pronunciarsi in quegli stessi anni anche figure come Carla Lonzi. Mentre quest’ultima, però, arriva ad allontanarsi dall’arte come mondo sottomesso non solo ai dettami patriarcali ma anche al mercantilismo, Mangiacapre e le Nemesiache concepiscono l’arte come territorio dove si può praticare una “incursione intermittente e disturbante” ai fini di una riappropriazione dei corpi e degli spazi femminili.
È proprio questa dimensione materiale dei luoghi e della corporeità a fungere da filo conduttore del femminismo nemesiaco. Il Manifesto della Creatività, datato al 1977, si apre con la denuncia della violenza (patriarcale) che ha espropriato le donne dei propri corpi, delle proprie modalità espressive. Le Nemesiache dunque si servono di strumenti plurimi del panorama artistico (teatro, performance, poesia, pittura, cinema) per attuare la riscoperta di un terreno dove le donne possono finalmente ritrovare una autenticità nella propria voce.
Riappropriarsi del corpo
In un articolo del 20 giugno 1979 comparso su l’Unità, Maria Roccasalva, artista e critica d’arte napoletana, commenta il lavoro delle Nemesiache sostenendo che esso dimostra che “la libera espressione del corpo può essere una via per liberarsi dall’alienazione”. Ciò che commenta Roccasalva è l’incursione delle Nemesiache al Frullone, ospedale psichiatrico di Napoli, avvenuta nel triennio 1977-1979. Durante questo lasso di tempo, le Nemesiache hanno dato vita a una performance partecipativa con le psichiatrizzate del Frullone, coinvolgendole in numerose attività tra cui concerti e momenti di svago. Una delle conquiste più grandi delle Nemesiache in tale frangente fu di garantire alle donne del Frullone la possibilità di accedere ai luoghi esterni dell’ospedale, atto consentito solo agli uomini fino a quel momento. L’esperienza del Frullone si è poi tradotta in un breve film di 40 minuti intitolato Follia come poesia (1979) composto di tre atti. Nella prima parte, si assiste al racconto-liberazione della nemesiaca Silvana Campese. Il film si apre infatti con dei fotogrammi rappresentanti una donna attanagliata dalle tenebre che, attraverso il momento del concerto e del ballo arriva finalmente a disfarsi dell’oscurità che la teneva prigioniera. È proprio l’atto del muovere il corpo assieme alle compagne, condito dalla gioia e l’entusiasmo della co-creazione tra donne che offre a Campese la possibilità di raggiungere la luce, che può anche intendersi come trasposizione filmica dell’ottenimento di una coscienza femminile tramite l’azione femminista.
Se gli altri gruppi attivi nel decennio Settanta in Italia tendono a prediligere l’autocoscienza (intesa come incontro e comunicazione tra sole donne con lo scopo di mettere in questione il subdolo condizionamento patriarcale e dare modo a una nuova soggettività femminile di nascere), le Nemesiache si allineano alla fruizione di tale pratica ma ne modificano le coordinate facendola propria. Il gruppo partenopeo, infatti, fa uso di una particolare forma di autocoscienza a cui attribuiscono il nome di “psicofavola”. La nemesiaca Bruna Felletti definisce la psicofavola come “autocoscienza non solo di parola, scrittura ma anche di gestualità, immagine, sensazioni”. In altre parole, la psicofavola condivide l’obiettivo dell’autocoscienza di demistificare la retorica patriarcale soggetta a introiezione da parte delle donne. La differenza tra le due pratiche sta nelle modalità in cui vengono espletate: la psicofavola, infatti, si attua non esclusivamente tramite il dialogo ma tramite la performance, la creazione, la coreografia, la scenografia, la musica. In tal senso, l’episodio dedicato a Silvana Campese in Follia come poesia è un esempio dell’autocoscienza performativa e incorporata (embodied) messa in campo dal femminismo nemesiaco.
Gli altri due episodi del film sono più direttamente incentrati sulle donne psichiatrizzate del Frullone rendendole non solo co-protagoniste ma anche co-autrici del film. In particolare, l’ultimo episodio si costituisce di una serie di ritratti delle donne del Frullone che, talvolta, guardano dentro la camera e direttamente negli occhi la spettatrice, interrogando le gerarchie per cui alcune soggettività non godono del privilegio dell’autonarrazione.
[Alt Text: le donne psichiatrizzate del Frullone in Follia come Poesia. Fonte: Archivio Le Nemesiache.]
Ispirata dall’esperienza al Frullone, Mangiacapre progetta e scrive un testo per la performance Siamo tutte prigioniere politiche (1978). Il discorso di Mangiacapre tocca l’argomento della storica segregazione femminile avvenuta tramite la criminalizzazione o la patologizzazione del sapere delle donne o dei comportamenti “devianti” rispetto alla norma imposta alle donne. Riconoscere ciò vuol dire riconoscere che le donne sono state storicamente “emarginate, confinate, espropriate”. Perciò è necessario un femminismo che sia “in lotta per le nostre scarpe, per i nostri spazi, spazi fisici, aria, aria per poter respirare, spazi per poter agire, cose da poter toccare per non diventare oggetti”.
Le radici
Nel 1972, Lina Mangiacapre scrive la Cenerella o psicofavola di Nemesi. Si ispira, in ciò, al racconto della fiaba di Cenerentola, modificandone il racconto in modo tale da disfarsi della retorica patriarcale di cui è intriso. La Cenerella di Mangiacapre non è succube della matrigna cattiva e delle sorellastre invidiose, bensì di un padre autoritario e due fratelli, di nome Aristotele e Platone, che non perdono occasione per ridicolizzarla. Il principe non la salva dalle grinfie della sua famiglia ma la rinchiude nel castello e nel ruolo di moglie devota e procreatrice. “Ricordati, ricordati…”, è la battuta che dà inizio alla Cenerella di Mangiacapre. La voce narrante è di Donna Memoria, impersonata dalla nemesiaca Claudia Aglione, rappresentante della “dimensione storica e originaria che vigila sulla presa di coscienza” della protagonista, Cenerella. Donna Memoria è personificazione della persistenza della memoria collettiva delle donne, seppure oppressa e addomesticata dalle narrazioni egemoni. Il suo compito è quello di aiutare Cenerella a disfarsi della norma imposta e riportarla a una presunta autenticità femminile ad essa antecedente. In particolare, Donna Memoria sollecita Cenerella a disfarsi del mito dell’amore romantico e venire meno alla colonizzazione sessuale e amorosa subita dalle donne.
[Alt Text: rappresentazione teatrale di Cenerella. Quattro donne vestite di bianco e col volto coperto da una maschera occupano il palco. La scenografia non è distinguibile ma alle loro spalle è appeso un panno bianco. Fonte: Archivio Le Nemesiache.]
Durante la prima rappresentazione della Cenerella, a Napoli, l’accesso alla visione dello spettacolo non viene concesso agli uomini. Nelle due rappresentazioni successive, a Milano e Amalfi, le Nemesiache acconsentono a farli entrare in platea solo se accompagnati da una donna che avrebbe funto da garante. Secondo le Nemesiache, infatti, era necessario che le donne si appropriassero dello spazio fisico del teatro per intessere un dialogo multimediale al femminile:
L’attenzione per la spettatorialità posta in relazione con l’atto della riscrittura del racconto antico danno luogo a un complesso intreccio tra passato e presente che viene messo in scena dalle Nemesiache in questa forma di “autocoscienza allargata” o partecipata. Il dialogo carico di tensione passato-presente del femminismo nemesiaco risulta ancora più complesso e sfaccettato nel momento in cui si considera il tentativo di radicamento locale napoletano e meridionale attuato dalle Nemesiache. Queste ultime, infatti, provano, anche entrando in conflitto con altri gruppi attivi a Napoli (come il Collettivo femminista napoletano), a rintracciare una specificità del femminismo meridionale e di praticare un’attività politica che risulti comprensibile, in primis, alle donne napoletane. Le Nemesiache si sono pronunciate a più riprese su questo aspetto, criticando anche il lavoro della nota rivista femminista Sottosopra, nata a Milano, sostenendone l’incapacità di raccontare delle problematiche pertinenti al femminismo meridionale.
Non è un caso che il femminismo nemesiaco adotti come propri riferimenti elementi che attingono alla cultura popolare e alla mitologia autoctona. Cenerella, ad esempio, ha come testo di riferimento il racconto così come scritto in Lo cunto de li cunti, una raccolta di fiabe in lingua napoletana di Giambattista Basile. Il corto Le Sibille (1980), invece, è presentato come ”un rituale per aprire il passato” e denunciare quindi le violenze subite dalle sibille, figure mitologiche della civiltà cumana dotate di facoltà profetiche. Le sibille rappresentano nel lavoro delle Nemesiache le donne tutte, silenziate ed espropriate della propria soggettività; i luoghi da loro abitati, devastati e poi abbandonati in preda al degrado più totale. È in un articolo del 1977 pubblicato sulla Gazzetta del Mezzogiorno che Mangiacapre denuncia la negligenza che segna il ricordo di Cuma, civiltà secondo l’autrice sommersa e dimenticata tanto che nei luoghi magnifici dove si scorgevano “prodigi di vita primitiva che, dalle spore vivificanti sulle scorie arse dei Campi Flegrei, giungeva fino alle più intense manifestazioni di vita vegetale ed animale pullulante nelle gole dei crateri estinti”, oggi si trovano solo “costruzioni in cemento, tracce di vegetazione e, come forma di vita animale, microbi e forme virali”. Mangiacapre auspica una riscoperta e adeguata valorizzazione della civiltà cumana, la quale, per la fondatrice delle Nemesiache, rappresenta il punto nevralgico da cui partire per una comprensione delle sopraffazioni e dell’imperialismo moderni.
[Alt Text: Teresa Mangiacapra (Niobe) in Le Sibille. Una donna tra le rovine di Cuma si china su un masso che reca parte di una scritta incisa. Fonte: Archivio Le Nemesiache.]
La riscoperta di Cuma passa per le Nemesiache che ne occupano i luoghi, rendendoli set dei loro film o spazi della performance, e ne rilavorano i miti. Le Nemesiache si impegnano a tutti gli effetti nell’opera di generare un corredo iconografico del femminismo situato a Napoli.
Femminismo, a sud
Secondo la nemesiaca Conni Capobianco, il femminismo napoletano, nelle sue molte sfaccettature, è da sempre teso verso due direzioni opposte: l’”altrove” e il “partorire”. L’altrove esprime la tendenza delle donne napoletane a protendersi verso un modello femminista che viene da fuori, dallo standard imposto dal nord; il partorire, di contro, è espressione della propensione, propria ad esempio delle Nemesiache, a formulare un femminismo che orienta il suo sguardo a partire da Napoli. Questa ambivalenza individuata da Capobianco sembra ricollegarsi alla subalternità che struttura i processi di soggettivazione delle persone del meridione italiano tutto. Partendo dalla questione linguistica, passando per l’enorme divario economico e per la disattenzione istituzionale nei confronti del sud, giungendo fino alla discriminazione più marcatamente culturale e alla lunga storia di alterizzazione dei meridionali, il sud Italia si colloca a tutti gli effetti al margine dello Stato italiano e pertanto produce soggetti marginalizzati.
L’immaginario stereotipico sul meridione italiano è ampiamente diffuso ed estremamente nutrito di immagini. Esso presenta le donne meridionali come silenziose e obbedienti, passive e succubi, mogli e madri che vivono totalmente soggiogate dall’uomo meridionale e dalla sua spiccata violenza. Il quadro che viene tratteggiato del sud Italia è quello di una società eccezionalmente patriarcale, retrograda e tradizionalista. Questa retorica è soggetta a introiezione da parte delle meridionali. Pertanto, la lotta femminista a sud deve rispondere alle esigenze di soggetti che si collocano all’intersezione di una duplice alterità: quella femminile e quella meridionale. Il femminismo nemesiaco individua e cerca di rispondere a questa necessità.
[Alt Text: raduno femminista a Torretta di Crucoli, Calabria. Le donne sono sedute o sdraiate in spiaggia e una di loro sta suonando un flauto. Fonte: Archivio Le Nemesiache.]
Nel 1981, a pochi mesi dal terremoto dell’Irpinia che ha devastato tanta parte del napoletano e dell’avellinese, le Nemesiache si esprimono su Quotidiano donna così:
In Italia la resistenza è finita nel dopoguerra, per noi napoletani non si è mai esaurita, non c’è mai stata tregua, resistere, adattarsi, abbarbicarsi al mare, al vicolo, alla casa fatiscente per non morire, per non essere cancellati. Resistenza intorno ad un polo, Napoli, che ancora oggi ha continuato a dare indicazioni di lotte, quale l’assoluta volontà di un diritto ad una qualità di vita umana che non si riduca solo al mito del produrre e del consumo.
La sensibilità meridionale delle Nemesiache rende la città di Napoli materia viva del femminismo. Se pensiamo che anche nel contemporaneo non è semplice individuare un discorso femminista che sia in grado di parlare alle donne del sud Italia, si può riconoscere in che misura il lavoro delle Nemesiache è stato pionieristico in questo senso.
Sono cresciuta in un minuscolo paesino del napoletano. Il femminismo è irrotto nella mia vita dall’alto, ennesimo monito della marginalità della mia provenienza. Riappropriarmi dei suoi strumenti e cucirlo sui luoghi a me familiari (rifiutare l’altrove di Capobianco) ha costituito una parte fondamentale della mia coscienza politica di oggi. Alla ricerca di un senso di autenticità ho provato a partire dalla concretezza dei referenti più prossimi alla mia esperienza di vita vissuta, i legami essenziali, la tangibilità delle radici, di ciò che riconosco come familiare. Quando ho intrapreso tale percorso, il mio incontro fortuito con le Nemesiache doveva ancora avvenire. Ho proceduto a tentoni, riflettendo da sola e con altre su come articolare un posizionamento femminista e meridionale. Non sapevo che dietro l’angolo c’era il Belvedere Lina Mangiacapre, e tutta la storia che porta con sé, con la cassetta degli attrezzi che, seppur non contenendo tutte le risposte, mi e ci offre le coordinate per muoverci su questo terreno scivoloso, per affermare con convinzione che “tutti i fiumi arrivano al mare della ribellione”.
Vera Sibilio ha conseguito un Master in Studi e Politiche di Genere all’Università Roma Tre dove ha presentato una tesi sugli archivi del neofemminismo italiano con un affondo sulle Nemesiache e Rivolta femminile. Ha lavorato come traduttrice per un progetto sul femminismo italiano degli anni Settanta e come assistente di ricerca per un lavoro sulla fotografia come strumento decoloniale. Si interessa al femminismo radicale, alla storia dei femminismi e alla teoria e pratica postcoloniale. È @verasibilio su Instagram, dove co-cura il progetto @iconografiecarlalonzi, ora anche su WordPress.
Crisi abitativa in Irlanda: ne parla Sally Rooney.
Trova finalmente una traduzione italiana (a cura di Claudia Durastanti per Liberaria) Sangue e viscere al liceo, romanzo di Kathy Acker. Qui una recensione di Gianni Montieri.
[Alt Text: copertina di Sangue e viscere al liceo, un disegno che raffigura la stessa Acker con i capelli corti e decolorati, un corto abito giallo e numerosi tatuaggi variopinti. La donna è inginocchiata, con la testa alta e lo sguardo deciso.]
Il ritorno più atteso dalle fan di Doctor Who non è quello di David Tennant, ma di Donna Noble: ne parla perfettamente Carmen Maria Machado.
Gli eventi del Center for the Study of Women and Gender sono audio e video accessibili gratuitamente a questo link di archivio.
Genealogia femminile è un progetto incentrato sulle opere delle scrittrici italiane della prima età moderna. Lo ha fondato Carlotta Moro e lo cura una redazione di studiosə: navigando, troverai testi introduttivi, biografie e guide all’analisi dei testi.
CALENDARIO
Da oggi a domenica, si svolge a Firenze il primo festival di letteratura working class. Tutti i dettagli e il ricchissimo programma sono qui.
[Alt Text: locandina semplice su fondo rosso del festival di letteratura working class del prossimo fine settimana. Oltre alle date e al luogo dell’evento, compaiono i nomi della casa editrice Alegre e del Collettivo di Fabbrica dei lavoratori GKN, che hanno messo in piedi il festival, e il disegno di un cacciavite che traccia un arzigogolo, come se fosse una penna.]
FATTO DA NOI
Nel numero speciale che la newsletter di FilmTv ha inviato l’8 marzo, puoi trovare consigli di visione lampo a cura di cinquanta “voci femminili”, tra cui Gloria ma anche Federica Bordin, Antonia Caruso, Cristina Resa e altre amiche di Ghinea.
FATTO DA VOI
Una conversazione fra Giuliana Misserville e Nicoletta Vallorani. Giuliana ci ha parlato dell’ultimo romanzo di Vallorani proprio nel numero dello scorso mese.
Se ti è piaciuto il pezzo che Romina Arena ha scritto per lo speciale dell'8 marzo, non puoi perderti quello che ha scritto per lə amicə di D editore.
Alessia Ragno intervista Marianna Crasto.
La nostra polonista di fiducia Giorgia Maurovich è in ottima forma sul Tascabile, con un pezzo su Witold Gombrowicz.
Federica Arenare su manipolazione ed interferenze di informazione come strumenti di guerra su Valigia Blu.
UN LIBRO
Le zone intermedie
di Diletta Crudeli
Nella rivista letteraria Waseda bungaku (Letteratura di Waseda) nel numero di novembre 1978, è riportato un dialogo tra le due autrici al tempo ormai note Takashi Takako e Yūko Tsushima. Queste conversano riguardo la rappresentazione delle donne all’interno della letteratura giapponese, da parte di autori più o meno recenti, e riguardo il ruolo stesso delle autrici nel panorama editoriale in epoca Meiji. Takahashi aveva vinto l’anno precedente il premio Women's Literature Award per la raccolta di racconti Ronri Uman (“Donna sola”), mentre Tsushima era già stata candidata anni prima al Premio Akutagawa e da pochi mesi era uscito il suo romanzo Il figlio della fortuna.
In questa discussione, tradotta in inglese da Maryellen Toman Mori e riportata nella raccolta Woman Critiqued: Translated Essays on Japanese Women's Writing curata nel 2006 da Rebecca Copeland (University of Hawaii Press) le due autrici proseguono a discutere riguardo le figure femminili nei romanzi degli uomini, in un passaggio particolare sulle storie di Yasunari Kawabata:
When I try to analyze this, it seems that Kawabata’s female characters are insubstantial. They’re like phantoms. But I think that their exteriors, as perceived through men’s eyes, are meaningful.
Quando provo ad analizzarle, mi sembra che i personaggi femminili di Kawabata siano privi di consistenza. Sono come spettri. Tuttavia credo che esteriormente, a un occhio maschile, abbiano comunque un certo spessore.
Personagge fantasma quindi, prive di profondità e ruolo. Le due autrici si interrogano ancora su male gaze, percezione del corpo femminile e ruolo della donna, all’interno della letteratura, ma anche della vita reale. Le donne giapponesi sembrano scisse in due luoghi differenti: quello che viene per loro immaginato e quello che immaginano loro stesse, che alla fine è il mondo comune.
In una breve panoramica del femminismo in Giappone, la prima svolta era avvenuta proprio in epoca Meiji, quando con la restaurazione fu abolita la divisione in classi ed eliminato il prestigio dei samurai. In quello che venne visto come un processo di modernizzazione del Giappone, il potere maggiore andava adesso al patriarca della famiglia. Era lui che aveva in mano la gestione delle finanze, del benessere, e dei diritti di chi gli soggiaceva, ovvero moglie e figli. Per fare un piccolo esempio, una donna divorziata era una donna priva di beni. Abitazione, denaro, qualsiasi cosa ella possedesse restava al marito. Viene gettata, letteralmente, in strada. Da questa rigidità esplode la prima ondata femminisra, che culmina nel 1919 con la fondazione del Shin-fujin kyokai (Nuova Società delle Donne) ovvero la New Women's Association. Nel dopoguerra, con il successivo boom economico degli anni Sessanta, la situazione cambia ancora una volta. Le donne sono consumatrici e produttrici di beni. Ci si interroga su nuovi temi, come genere, riproduzione, eppure lo spazio non è ancora posseduto del tutto.
No matter how much the law or society becomes able to recognise [women], it’s clear that we will not be allowed to work the same as men. Those are formal changes, and the reality is that people’s fi xed ideas about women’s position will not disappear. The idea that, given this, women should try to be active in the territory that’s available to them, is linked to the full-time housewife goal.
Non importa quando la legislazione o la società sia capace di riconoscere noi donne, è chiaro che non ci verrà permesso di lavorare come gli uomini. Si tratta di cambiamenti formali, la realtà è che l’idea fissa che le persone hanno riguardo lo spazio accordato a una donna non cambia. L'idea che, a fronte di ciò, le donne debbano cercare di essere attive nel territorio che hanno a disposizione, è legata all'obiettivo della casalinga a tempo pieno.
Questo è ciò che scrive una studentessa di Ueno Chizuko nel 1988, riportato nel saggio Feminist Movements in Contemporary Japan di Laura Dales (Routledge, 2011).
Ancora oggi una donna lavoratrice, in Giappone, non è vista di buon occhio. Per quanto ci siano ormai nuclei famigliari diversificati, donne in ogni settore lavorativo, per quanto divorzio, cura, educazione sessuale siano praticamente al passo con i tempi, esiste una divisione invisibile.
La letteratura giapponese si è interrogata, dal presente ai tempi più recenti, riguardo queste zone intermedie. Zone che sono delle donne, che spettano alle donne, zone che sono in realtà zone comuni ma che vengono semplicemente ritagliate dalla vista e relegate in un angolo.
Sempre nella raccolta di Copeland, viene riportata a inizio volume una tavola rotonda tra uomini risalente al 1908 che si interroga riguardo il ruolo di una sempre più dilagante scrittura al femminile, che a loro parere sembra un po’ troppo sviare dai giusti sentieri morali per inoltrarsi in territori e tematiche non le spettano. La letteratura, come già visto nel dialogo tra Takahashi e Tsushima, si ribella, e si chiede quale spazio sia davvero quello giusto.
Il primo romanzo che segnalo è proprio il già citato Il figlio della fortuna di Yūko Tsushima, pubblicato da Safarà Editore nel 2021 con la traduzione di Maria Teresa Orsi. Il romanzo narra di Koko, una trentaseienne madre single, insegnante di pianoforte. Scontenta della propria vita, il rapporto con la figlia adolescente è più che mai burrascoso (infatti Kayako spesso alloggia dalla zia per evitare la sua compagnia), Koko scopre di essere incinta. L’evento rompe una quotidianità fatta di infiniti conflitti che non le hanno mai permesso di rendersi conto di cosa volesse davvero. Già di per sé madre non istituzionale (divorziata che ha già avuto altre storie dopo la rottura) la solitudine creata da una gravidanza inaspettata crea per Koko uno spazio sicuro in cui ripensarsi. Nel finale, scopriremo che in realtà la gravidanza non è mai esistita. Eppure la donna ha mutato tutte le sue prospettive, e quando l’uomo con cui usciva si propone per il matrimonio rifiuta, risentita.
Koko fino a quel momento aveva attraversato il mondo cercando di trovare i suoi sentimenti nell’ambiente circostante, come se fosse uno specchio. Ricorda il giorno in cui era andata a trovare il fratello disabile, ricoverato in un istituto, riflette: “Era come se tutto il peso del terreno trasudante d’acqua la schiacciasse”. Quando passeggia per strada diretta ad abortire pensa: “Forse era tutto un’illusione, la strada, le macchine, le case ai due lati, il cielo”.
Alla fine del romanzo Koko non osserva più, ma “cammina risoluta”.
Nel dialogo già riportato tra le due autrici, Takahashi e Tsushima, la prima dice alla seconda, riguardo il tema che considera come nocciolo di Il figlio della fortuna: “L’idea che le donne siano situate in una zona intermedia. Credo che questo sia uno dei tuoi temi principali”.
Ancora una volta quindi, dal recinto e da ciò che è nascosto, può sollevarsi una letteratura, un modo di vedere marginale che ibrida generi, temi e stili. Questo vale per Mori Yōko, autrice contemporanea di Tsushima, portata per la prima volta in Italia da Lindau Edizioni nel 2021 e tradotta da Giuliana Carli.
Fiabe di letto è una raccolta che contiene la novella d’esordio Fame d’amore del 1978 più altre storie estrapolate da opere successive. Mori è stata più volte interrogata riguardo la volontà di voler scrivere di furin, che può essere tradotto in inglese come love affairs, ma che letteralmente significa “relazioni fuori dalla morale”. Tuttavia, come sottolinea lei stessa in una nota riportata nella raccolta, questa etichetta, che viene a designare un genere narrativo, è riduttiva e bigotta. Quando le viene chiesto da un giornalista perché scrive di questo Mori risponde: “Le rigiro la questione: in America e in Europa non esistono i love affairs?”.
Al contrario di ciò che ci si potrebbe aspettare, le storie di Mori sono divertenti, talvolta umoristiche. La stessa novella d’esordio è scevra da eccessivi sentimentalismi, dramma e sensi di colpa. All’interno di brevi racconti l’autrice riesce inoltre a inserire temi attuali, come il matrimonio combinato, le aspettative all’interno di una coppia, i rapporti con altre coppie sposate o meno.
Anche in Fame d’amore tuttavia, la protagonista non può fare a meno di cercare un appiglio nel mondo materiale per raccontare i suoi sentimenti, attraverso le luci dei quartieri, la propria casa vuota o quella dell’amante. Mori Yōko fa un passo avanti, mettendo in scena la contemporaneità vera e propria, un mondo che ormai è libero e moderno e non può cercare di privare le donne dei loro bisogni.
Facendo un salto in avanti rispetto al periodo Meiji per arrivare fino al periodo Heisei, troviamo Natsuo Kirino che dall’inizio degli anni Novanta fa propria la lezione della letteratura gialla chiamata shakai ha (Scuola Sociale), ovvero una narrazione meno ortodossa rispetto al canone giallo, istituita dall’autore Seicho Matsumoto. Storie dove l’elemento sociale è sotto i riflettori, diverse dal classico whodunit. Ma Kirino, che esordisce con una serie che vede protagonista una detective donna, non si ferma qui. Il suo Le quattro casalinghe di Tokyo, uscito nel 2003 e pubblicato in Italia da Neri Pozza e tradotto da Lydia Origlia, è un romanzo cupo e ricco di suspense ma che soprattutto racconta una vita nascosta, tenuta segreta a celata agli occhi di molti: quella di quattro donne della classe meno agiata. Le quattro protagoniste sono infatti quattro casalinghe che dividono i doveri di moglie e madri con un lavoro part-time in una fabbrica, ovviamente sottopagato e senza sicurezze e sussidi.
Quando una di loro uccide il marito violento, le altre lentamente fanno squadra intorno a lei per darle una mano a sbarazzarsi del cadavere, fino a raggiungere un vero e proprio impiego criminale, smaltendo cadaveri per la yakuza.
La zona intermedia di Kirino è quella domestica, confortevole e accogliente, vista però per quello che è, un luogo fatto di problemi economici (Kuniko è indebitata e ha uno strozzino che le fa la posta sotto casa), legislazione asfissiante (Yoshie, per legge, deve prendersi cura della suocera dal momento che il marito è scomparso), ipocrisia (Masako non ha potuto fare carriera perché come donna avrebbe sempre soggiaciuto agli uomini che la circondavano) e infine violenza (Yayoi arriva a commettere un omicidio). Questo serve anche a offrire una lente distorta e parodistica di questo vivace quartetto: il loro lavoro domestico e di cura diventa quello di fare a pezzi con cura un cadavere e seminarlo per i quattro angoli della capitale.
Per ciò che riguarda la povertà e i desideri che necessitano uno spazio senza ingombri tocca tornare un attimo indietro in epoca Meiji, dove i ceti bassi di Tokyo sono sicuramente stati raccontati per la prima volta da Ichiyō Higuchi. L’autrice, discendente di una famiglia il cui padre aveva raggiunto il titolo di samurai giusto poco prima della restaurazione (e di fatto quindi perdendolo di nuovo), rimasta sola con la madre tenta di sostenere la famiglia tramite il ricavato della scrittura, essendo fin da giovane riconosciuta come talentuosa.
Higuchi è stata capace di utilizzare un linguaggio nuovo, in grado di raccontare un mondo ormai diverso da quello di epoca Heian, che vedeva la letteratura semplice hobby per ricchi, senza però liberarsi del tutto dalle sue atmosfere ricche ed evocative.
In Acque torbide scritto all’apice del successo nel 1885, pubblicato in italiano da Jouvence nel 2015 nella traduzione di Paola Cavaliere e Atsuko Atsuma, la protagonista è una cortigiana molto popolare nel suo distretto, che tuttavia deve continuamente rendere conto alla vita che desiderava, quella che i suoi genitori avrebbero desiderato per lei, e quella che può permettersi. La profondità psicologica della sua protagonista lascia trasparire quanto sia importante la scrittura di Higuchi in mezzo a tutte le altre autrici di epoca Meiji. La necessità di emanciparsi per motivi economici, ma anche per raggiungere il posto che le spetta e che desidera.
Per tornare infine alle donne spettro, che hanno assunto forme sempre più concrete, infestando le zone intermedie, basti vedere il primo romanzo della storia giapponese scritto da una donna. In La storia di Genji di Murasaki Shikibu (pubblicato in edizione integrale da Einaudi nel 2015 e tradotto da Maria Teresa Orsi) le donne e gli spettri agiscono di familiare accordo. Scritto intorno al 1002 dalla dama di corte Murasaki, il romanzo è un classico e una pietra fondante della letteratura giapponese. Intorno al Principe Genji imperatrici, principesse, cortigiane sfilano una dopo l’altra, ma non senza passare inosservate. È Rokujō in particolare, una vedova più anziana di Genji, colei che soffoca i suoi sentimenti e lentamente, per gelosia e desiderio nei confronti dell’uomo diventa un demone. L’ikiryo è il termine che indica questo tipo di possessione: uno spirito che abbandona un corpo vivo per tormentare un’altra persona.
Le zone intermedie sono tutte occupate da donne che prendono possesso delle strade, delle case che non dovrebbero raggiungere, dei vicoli di Tokyo. Il tempo allarga e restringe i territori che spettano loro, ma sono ormai ben lontane dall’essere prive di consistenza e semplice etichetta letteraria.
Diletta Crudeli è nata nel 1991 e le piacciono le storie strane. Editrix per Moscabianca Edizioni, cura la collana di narrativa breve illustrata Cuspidi e la collana per ragazzx La fine del mondo. Redattrice per l’Eco del Nulla, talvolta scrive di libri su Ghinea Newsletter ed è fondatrice di Spore Rivista. I suoi racconti sono usciti su diverse riviste letterarie, tra cui «Tre Racconti», «Narrandom», «In fuga dalla bocciofila» e «Specularia». Ha pubblicato storie nelle raccolte Prisma Vol. 1 (Moscabianca Edizioni 2019), W.o.W. Women of Weird (Moscabianca Edizioni 2020), Prisma Vol. 2 (Moscabianca Edizioni 2020) e Hortus Mirabilis. Storie di piante immaginarie (Moscabianca Edizioni 2021). Sempre per Moscabianca Edizioni ha curato l’antologia speculative queer HUMAN/ (2021).
Ringraziamo Vera e Diletta per il loro contributo. Ci leggiamo a fine aprile!
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia